Presentazione del libro “Il mondo che ho vissuto” di Umberto Cardia

Gianni Fresu, recensione a:

Il mondo che ho vissuto, di Umberto Cardia, a cura di Giuseppe Marci, prefazione di Joseph Buttigieg, Cuec, Cagliari, 2010.


La prima considerazione generale che mi viene da fare dopo la lettura di questo libro è sulla sua assoluta godibilità. Umberto Cardia – uno dei più importanti dirigenti sardi del PCI nel dopoguerra, giornalista, colto studioso dell’opera di Antonio Gramsci e di storia della Sardegna – è una figura di tale rilievo politico e intellettuale da suscitare in chi scrive un fin troppo ovvio interesse di ricerca, tuttavia, credo che questa autobiografia possa risultare una bella lettura anche per chi non necessariamente si occupa di storia e di politica. Non sono un esperto di letteratura, ma ho apprezzato particolarmente il ritmo attraverso cui Cardia ha narrato la sua esistenza e il mondo che ha vissuto, dalla nascita sino alla chiamata alle armi nel ’41. Tra le righe di questo manoscritto ci sono delle bellissime pagine su una Sardegna che ovviamente non c’è più, c’è la nostalgia per quei luoghi indissolubilmente associati ai ricordi familiari, in una progressione dolce dall’infanzia, all’adolescenza fino al primo ingresso nel mondo degli adulti. Pagine vivide, come quelle nelle quali descrive il peregrinare da Tortolì a Bosa, fino a Cagliari, nella casa di via Leopardi, sita allora «al limite estremo della città, nel rione di San Benedetto, oltre il quale limite si estendevano i campi e gli orti e si intravvedevano, tra le palme ed il luccicare degli stagni, i profili incerti degli abitanti delle nuove frazioni, annesse dal regime alla città e, nello sfondo, le creste dei monti dei Sette fratelli»1. Descrizioni mai didascaliche, semmai intrise di storia e di consapevolezza sulla importanza di tante, grandi e piccole, manifestazioni del quotidiano che ad un occhio distratto possono apparire trascurabili e addirittura insignificanti, ma che invece assumono un senso generale proprio in rapporto alla storia del mondo, «grande complicato e terribile», che contemporaneamente alla nostra vita scorre con le sue scadenze inesorabili. La seconda considerazione riguarda invece i due ambiti nei quali si compone e si sviluppa la vita di Cardia, che inevitabilmente occupano anche le riflessioni principali di queste pagine.

 

ACTUEL MARX – Demistificare le autorappresentazioni del reale.

ACTUEL MARX

Demistificare le autorappresentazioni del reale.


Marx ed Engels ci hanno fornito degli indispensabili e quanto mai attuali strumenti per analizzare la società borghese dal punto di vista storico, dei meccanismi di funzionamento economico, degli apparati di dominio ideologico. La critica dell’economia politica, in rapporto all’attuale crisi mondiale, penso sia stata ampiamente e autorevolmente trattata nella prima sessione di questo ciclo di conferenze, con questo mio intervento vorrei provare ad affrontare un altro tema centrale dell’opera di Marx, quello della «falsa coscienza» o, detto in altri termini, della funzione dell’ideologia nella conservazione dello stato di cose esistenti.  Oggi, più di quanto non lo fosse cento anni fa, le masse popolari accettano passivamente la loro condizione di subalternità, non tanto (o non solo) per l’uso monopolistico della forza da parte dello Stato, quanto perchè  esse si trovano ad aderire al sistema di civiltà e cultura dalle classi dominanti. Come ha scritto Gramsci ciò che distingueva maggiormente la borghesia nella sua fase rivoluzionaria era la sua capacità di includere altre classi sociali e dirigerle attraverso lo Stato, l’egemonia politica e sociale. Mentre nel feudalesimo l’aristocrazia, organizzata come «casta chiusa», non si poneva il problema di inglobare le altre classi, la borghesia si rivela ben più dinamica e mobile puntando all’assimilazione del resto della società al suo livello economico e culturale. Questo muta profondamente la funzione dello Stato rendendolo «educatore», anche attraverso la funzione egemonica del diritto nella società.  La borghesia storicamente opera a rendere omogenee (per costumi, morale, senso comune) le classi dirigenti e creare un conformismo sociale capace di consolidarne il potere, attraverso una combinazione di forza e consenso. In questo modo riesce a irreggimentare e dirigere con schemi culturali propri anche le classi dominate. Ogni Stato è etico nella misura in cui opera per elevare l’insieme della popolazione a un livello culturale e morale confacente allo sviluppo delle forze produttive e agli interessi delle classi dominanti. Tale importantissima funzione trova nella scuola e nei tribunali le attività statali fondamentali, anche se in realtà esse non sono le sole. Devono essere comprese nel concetto di Stato etico anche l’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti. Gramsci ha indagato in profondità il funzionamento di questi apparati di egemonia, Marx ha il grandissimo merito di aver per primo squarciato il velo su come la borghesia si serve di tutti gli strumenti ideologici (economia, filosofia, politica ecc. ecc) per trasfigurare la realtà concreta, presentando i propri interessi particolari come generali.

Nell’affrontare in termini generali il pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels, ritengo si possa partire da due definizioni che nella loro sinteticità ne rappresentano bene i caratteri essenziali, mi riferisco alle definizioni di socialismo scientifico e filosofia della prassi. La prima tende a distinguere fondamentalmente il pensiero dei due autori tedeschi dalle diverse e precedenti forme del pensiero socialista, (cioè il socialismo utopistico e il comunismo rurale). La differenza essenziale è data dal fatto che il marxismo basa i suoi postulati, non su valutazioni morali o sull’assunzione paternalistica del problema riguardante la parte più debole e povera della società, ma su un’analisi scientifica e sulla conseguente critica delle modalità di sviluppo del modo di produzione capitalistico e dei relativi rapporti economico-sociali.Per quanto riguarda il concetto di filosofia della prassi nelle undici Tesi su Feurbach si trova una frase che come poche ne esemplifica il senso:

Il punto di vista del vecchio mondo borghese è la società borghese, il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l’umanità sociale. I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarlo.

In questo senso il marxismo è definito filosofia della prassi, vale a dire, non semplice speculazione filosofica tesa ad una lettura oziosa della realtà, ma interpretazione di questa per la sua trasformazione. Il punto dunque sta nella necessità di unire la teoria alla prassi, il pensiero all’azione, la filosofia alla politica. In questo modo il materialismo storico supera sia l’idealismo sia il mero materialismo filosofico. Nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica” del 1859, Marx scrive:

Tanto i rapporti giuridici che le forme dello Stato non possono essere comprese né  per se stessi né per la cosiddetta evoluzione dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza[1].

Già nel lavoro teso a invertire i due termini della dialettica di Hegel, con cui il soggetto diventa il reale e il predicato diventa il pensiero, è rintracciabile un primo tassello essenziale per comprendere e dunque disarticolare le forme di autorappresentazione della società borghese. Il materialismo storico individua quale autentico protagonista della storia l’uomo nel suo concreto operare, attraverso un rapporto dialettico tra il soggetto (l’uomo nella società) e l’oggetto (il mondo materiale) nella quale  gli uomini determinano una progressiva trasformazione del mondo materiale attraverso il perseguimento dei propri fini e la costante creazione di nuovi bisogni. Nel succedersi delle diverse epoche storiche, dei diversi modi di produzione, il vero motore dei mutamenti è dato dall’insanabile contrasto che si determina tra una classe dominante ed una dominata. La classe dominata che si pone come antitesi rispetto a quella dominante è da quest’ultima creata. Ogni modo di produzione è storicamente determinato è cioè il frutto dell’incessante lotta tra le classi. Lo Stato nella concezione del materialismo storico, altro non sarebbe che un riflesso dei rapporti di produzione, una sovrastruttura al servizio degli interessi dei detentori dei mezzi di produzione, per usare le celebri parole del Manifesto, «il potere politico moderno non è altro che un comitato, il quale amministra gli affari comuni della classe borghese nel suo complesso»[2]. Ma come già accennato nella sovrastruttura rientrano appieno i sistemi delle idee, cioè la religione, la filosofia, l’ideologia e il rapporto tra realtà materiale e sistema delle idee non è unilaterale e meccanico bensì reciproco. Proprio il fraintendimento su tale rapporto e l’interpretazione deterministica del materialismo storico sarebbe alla base delle più volgari semplificazioni del marxismo dopo Marx. Contro tale svilimento del marxismo Engels ha condotto negli ultimi anni della sua vita una battaglia filosofico-politica serratissima sulla quale non mi posso addentrare per ragioni di tempo, mi limito a citare alcuni passi illuminanti di una sua lettera scritta a Bloch il 20 settembre del 1890.

Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi momenti della soprastruttura (…) esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (…) se non fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado[3].

Ma non furono solo i modesti epigoni di Marx a volgarizzarne il pensiero, un ruolo determinante venne giocato anche dai suoi detrattori. In tal senso per Croce il marxismo non riconoscerebbe il momento dell’egemonia e non attibuirebbe importanza alla direzione culturale. Al contrario, come ha scritto Gramsci, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:

esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante  [4].

Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé». Per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso  necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture.

Nell’Ideologia tedesca tale rapporto è indagato con una prospettiva filosofica estremamente efficace che chiarisce meglio di ogni giro di parole in cosa consista la «falsa coscienza»

Ogni classe che prenda il potere di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide[5].

Per Marx nella filosofia classica tedesca la relazione tra i fatti materiali e le idee è rappresentata capovolta, come all’interno di una camera oscura, appunto come un uomo che cammina sulla testa. Dunque bisogna invertire i termini, «salendo dalla terra al cielo» e non viceversa, superando una visione dell’uomo come autorappresentazione per arrivare alle donne e agli uomini in carne e ossa, realmente operanti sulla base del processo reale della loro vita. Tutto il sistema delle idee – delle  rappresentazioni e della coscienza – è strettamente intrecciato all’attività materiale degli uomini. «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere sociale, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».

Nei lavori di approfondimento su Marx ciclicamente riaffiora la tendenza a presentare Engels come un «metafisico del materialismo» che avrebbe tradito Marx attraverso pericolose contaminazioni positivistiche, o che, è il caso di Lucio Colletti, avrebbe stravolto il senso della critica di Marx allo hegelismo introducendo di soppiatto la dialettica e presentando il marxismo come un semplice sviluppo rovesciato della filosofia di Hegel. In realtà questa tesi si scontrerebbe con il fatto che Marx è sempre stato al corrente delle ricerche di Engels, che le ha condivise e che anzi tra loro c’è stata una sorta di divisione del lavoro, corrispondente alle diverse attitudini dei due, ed anche un capitolo del lavoro di Engels più soggetto a tali critiche, l’ Antidühring, è stato scritto dallo stesso Marx. Contrariamente a questa vulgata che vede in Engels un profanatore dell’opera di Marx, è bene dire che il rapporto tra i due è stato simbiotico. La loro amicizia risale ad un loro incontro a Parigi nel 1844, il loro sodalizio risale alla redazione delle prime due opere in comune, La sacra famiglia e soprattutto l’opera più importante sul piano della definizione del materialismo storico, cioè L’Ideologia tedesca, scritte entrambe a Bruxelles tra il 1845 e il 1847.   L’incontro con Engels (sul piano teorico prima ancora che su quello umano), fu fondamentale per Karl Marx, perché fu il primo ad infondere nel secondo l’interesse per l’economia politica e per la storia economica. Tra il 1842 e il 1844 infatti Engels, trasferitosi in Inghilterra per lavorare nella filiale inglese dell’impresa del padre, si trovò a stretto contatto con le dinamiche di sviluppo della società capitalistica, e quindi sintetizzò le sue riflessioni critiche sulle caratteristiche di quel modo di produzione in un saggio, Lineamenti di una critica dell’economia inglese, che impressionò molto favorevolmente Marx. La conferma di questo interesse verso le analisi storico economiche di Engels, è data dalle bozze di uno scritto di Marx dell’estate del 1844 (pubblicato solo nel 1932), i Manoscritti economico-filosofici, nel quale sono rintracciabili ampi stralci dello scritto di Engels. Fino a questo momento le riflessioni di Marx si erano limitate ad un ambito prevalentemente filosofico e politico, solo a questo punto Marx intraprende uno studio rigoroso dell’economia politica classica, attraverso la lettura critica del pensiero di  Adam Smith e  David Riccardo, e perviene tramite esso alla definizione essenziale del materialismo storico. Per tutte queste ragioni gli scritti di Marx che precedono questa svolta sono definiti da un grande analista del pensiero marxiano come David McLellan, come scritti pre-marxisti, nel senso che in essi non si trova alcuna interpretazione  della storia in termini di classi, di modi di produzione, di analisi del rapporto tra capitale e lavoro. Lo sviluppo di queste tematiche avviene negli scritti della maturità e cioè Il capitale preceduto da due introduzioni  a questo (scritte tra il 1857 e il 58), che verranno pubblicate postume, e cioè Per una critica dell’economia politica e Lineamenti fondamentali di economia politica (più nota con il nome di Grundrisse).

Il capitale è strutturato in tre volumi, dei quali solo il primo fu pubblicato con Marx ancora in vita nel 1866, gli altri due volumi verranno invece pubblicati postumi, tra il 1885 e il 1894. Ciò che contraddistingue in primo luogo la produzione capitalistica per Marx è «la produzione per la produzione», cioè il fatto che il fine ultimo della produzione capitalistica è la rigenerazione del capitale su sé stesso, lo scopo della produzione non è più soddisfare i bisogni di chi produce, in altre parole, scompare ogni legame fra ciò che si produce e il bisogno immediato del produttore. Il capitale dunque deve crescere su sé stesso per riversarsi sui tre fattori della produzione, capitale, lavoro e terra, sotto la forma del profitto, del salario, della rendita.  Questa spinta del capitale a valorizzarsi trova la sua personalizzazione nel capitalista, che non considera mai definitiva nessuna forma tecnica di produzione ma che è sempre pronto a rivoluzionare i processi di lavoro per aumentarne la produttività e diminuirne i costi. Altra caratteristica del capitalismo è infatti proprio la sua natura profondamente rivoluzionaria e dinamica.

L’analisi dettagliata sulla genesi e i processi di sviluppo del capitalismo ha in sé anche un contenuto profondamente filosofico che in primo luogo riafferma la centralità della dialettica hegeliana contro le tendenze degenerative proprie del marxismo determinista. Nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873, Karl Marx – pur richiamandosi alla critica condotta trent’anni prima al «lato mistificatore della dialettica hegeliana» – sente il bisogno di prendere le distanze dai «molesti, presuntuosi e mediocri epigoni» che al tempo si permettevano di trattare Hegel come «un cane morto». In questo poscritto, oltre ad ammettere di avere «civettato qua e là» col modo di esprimersi peculiare a Hegel, nella parte relativa alla teoria del valore, Marx si professa apertamente scolaro del «grande pensatore»[6]. Ma ciò che maggiormente ci interessa è che il metodo dialettico è utilizzato da Marx per mettere a nudo proprio la falsa coscienza insita in tutta la sterminata pubblicistica di economisti e filosofi di scuola liberale. Il processo di mistificazione della realtà, finalizzato alla sua conservazione, riguarda anzitutto le leggi dell’economia con le sue modalità di produzione, sfruttamento e appropriazione della ricchezza. Nel Capitale ciò si evidenzia su tre aspetti fondamentali dell’ideologia borghese:

1)      presentare l’economia politica come legge naturale inscritta nella stessa evoluzione della specie umana e dunque l’occultamento della natura storicamente determinata del capitalismo.

 

2)      Rappresentare l’origine del capitalismo, la famosa accumulazione originaria, come un processo evolutivo naturale nel quale regna l’idillio sociale.

 

3)      Nascondere le modalità di riproduzione del capitale e dunque l’appropriazione del plusvalore prodotto.

Presentare l’economia politica come legge naturale, sola universalmente valida, e nascondere la natura storicamente determinata del capitalismo significa considerare la realtà della società borghese come ineluttabile celandone il dominio di classe e i rapporti di sfruttamento. Nel Capitale, Marx analizza la genesi storica del capitalismo, individuandola nel processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. L’analisi del Capitale è ovviamente concentrata su quella che al tempo era la realtà più avanzata sul piano dello sviluppo capitalistico, cioè l’Inghilterra, e in questo contesto l’accumulazione originaria del capitale, veniva fatta risalire a quei processi di privatizzazione delle terre sulle quali sussistevano i tradizionali usi civici delle comunità contadine. Il fenomeno delle «enclosures», cioè della recinzione delle terre, portò a partire dal XVI secolo allo sfruttamento imprenditoriale  delle terre attraverso l’allevamento delle pecore da lana.

Nell’economia politica la cosiddetta accumulazione originaria del capitale svolge la stessa funzione del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite dirigente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano gli sciagurati oziosi che  sperperavano tutto il proprio e anche di più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare[7].

Il modo di produzione capitalistico, ha nella separazione fra il lavoratore e la proprietà delle proprie condizioni di lavoro una premessa indispensabile che una volta realizzata si riproduce su scala crescente. Dunque la accumulazione originaria è questo processo storico di separazione con la quale si creano da un lato il capitale e dall’altra i lavoratori salariati, un processo che segna il superamento del modo di produzione feudale, a partire dal regime fondiario, e di tutta la sua articolazione istituzionale. Il lavoratore dispone della sua persona cessando di essere un servitore della gleba infeudato ad un’altra persona e liberandosi dal dominio delle corporazioni feudali. I lavoratori però se da un lato divengono liberi venditori della propria forza lavoro, per un altro vengono spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e delle garanzie offerte loro dai rapprti sociali feudali. Per Marx si tratta di una storia di espropriazione violenta che non ha nulla di idilliaco, come invece narrato dai teorici dell’economia politica,  una storia «scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco». Tanto il capitalista, quanto l’operaio salariato sono generati dall’asservimento del lavoro, dalla sua trasformazione da asservimento feudale ad asservimento capitalistico. Questa storia che percorre l’Europa lungo quattro secoli – in Sardegna l’abbiamo conosciuta nell’Ottocento ed ha generato insieme alle punte più acute del banditismo i famosi moti popolari all’insegna di torrare a su connottu – è segnata dalle sterminate masse di diseredati, sradicate con la forza dai loro modi di sussistenza e gettati nel mercato di lavoro come proletariato eslege. Pur con tutte le sfumature che tale processo assume, l’espropriazone ed espulsione dei produttori rurali, con la distruzione delle rispettive comunità, è il dato costante. La realtà analizzata da Marx è l’Inghilterra dove ancora nel XV secolo la maggioranza della popolazione era costituita da contadini autonomi, come i fittavoli e gli operai salariati dell’agricoltura che oltre al lavoro nelle grandi proprietà fondiarie godevano assieme ai contadini veri e propri dell’usufrutto delle terre comunali, vale a dire i cosiddetti usi civici di pascolo, legnatico, raccolta, ecc., chiamati in  Sardegna diritti ademprivili. Da tutto questo derivava che nel sistema feudale vigeva una spartizione delle terre fra il maggior numero possibile di «contadini obbligati», anche perché il metro di lunghezza del potere di un feudatario non era tanto il registro delle sue rendite quanto il numero dei suoi sudditi, strettamente dipendente dal numero di produttori rurali autonomi. Un sistema che oltre a favorire la fioritura delle città inglesi nel XV secolo consentì una certa diffusione di ricchezza popolare che tuttavia escludeva una possibilità di accumulazione e dunque di sviluppo in senso capitalisico. La premessa dello sviluppo capitalistico si ha con lo scioglimento dei seguiti feudali nell’ultimo trentennio del XV secolo che si accompagna allo sviluppo della borghesia, e al conseguente rafforzamento della monarchia, quindi alla nascita di una industria manufatturiera laniera. Un processo a tappe lungo i secoli, che trova nella Riforma religiosa  e nel «furto dei beni ecclesiastici»  un momento di impulso fondamentale in ragione del quale gli immensi beni della Chiesa vennero acaparrati da speculatori senza scrupoli, riuniti in immense proprietà. La cacciata dei fittavoli, dei contadini salariati e degli artigiani che vi erano insediati determinò uno spaventoso aumento della povertà ben testimoniato nell’Utopia di Tommaso Moro, l’aumento dei prezzi per i beni di sussistenza, disoccupazione cescente e il ridimensionamento delle paghe per i salariati agricoli. I proprietari terrieri riuscirono poi a dare forma legale al loro possesso attraverso l’abolizione dei vecchi regimi feudali sul suolo, scaricando l’indennizzo sullo Stato tramite le tasse ai contadini e al resto della popolazione. In questo modo riuscirono a garantirsi una proprietà perfetta su fondi rispetto ai quali prima vantavano solo dei titoli feudali. Con la «gloriosa rivoluzione» e Guglielmo III di Orange i protagonisti di questa ascesa sociale trovarono anche la loro consacrazione politica:

i facitori di plusvalore, fondiari e capialistici, inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che fino a quel momento era stato perpetrato solo su scala modesta. Le terre demaniali venivano regalate, vendute a prezzo irrisorio, oppure annesse a fondi privati per usurpazione diretta[8].

La soppressione delle proprietà comuni nel XV e XVI secolo si attuò come azione violenta individuale, il cambio di passo nel Settecento ebbe a manifestarsi con il fatto che «la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo». Marx descrive la celebre Bills for incluseres commons decreti di espropriazione a danni del popolo con i quali «i signori dei fondi regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo». Con l’accumulazione originaria si creano quindi le due forze produttive essenziali allo sviluppo della società borghese, il capitale e il proletariato, ma ciò doveva avvenire a un prezzo salatissimo e in un arco temporale non certo breve. Al di là dei tempi fisiologici, lo sconvolgimento per la privazione dei mezzi di sussistenza e dei modi tradizionali di vita non poteva certo favorire il rapido adattamento ai nuovi rapporti di produzione. La radicale brutalità di tale processo ebbe dunque l’effetto di moltiplicare a dismisura mendicanti, vagabondi e soprattutto briganti, perché ovviamente prima che il sistema manifatturiero riuscisse ad assorbire le sterminate plebi cacciate dalle campagne sarebbero occorsi tempi lunghi. Una conseguenza ulteriore fu pertanto la nascita di una legislazione sempre più sanguinaria contro il vagabondaggio e i fenomeni di delinquenza connessi allo stato d’indigenza che a partire dal XV e XVI secolo si duffusero gradatamente dall’Inghilterra all’Europa occidentale contestualmente al mutamento dei rapporti sociali e di produzione. Le grandi masse di coloro che hanno la propria forza lavoro quale unica ricchezza subiscono in sequenza l’espropriazione dei propri mezzi di produzione, uno stato di miseria coatta e la legislazione repressiva, una normativa salariale costruita in maniera tale da garantirgli il minimo possibile per poter sopravvivere e riprodursi come forza lavoro. Il moderno proletariato è dunque plasmato sulle esigenze della produzione nel corso di un processo violento nel quale la sottomissione e la disciplina necessaria al sistema del lavoro sono imposte «a forza di frusta, di marchio a fuoco, di tortura». Con l’affermarsi del nuovo modo di produzione e lo svilupparsi di una classe lavoratrice così forgiata, educazione, abitudine e tradizione concorrono a farle percepire quelle leggi imposte come naturali e in quanto tali immutabili, ecco la falsa coscienza! Il velo di ipocrisie degli economisti sulle modalità di produzione e ripartizione delle ricchezze prodotte, in funzione del capitale, dunque il mistero accuratamente celato circa le leggi del plusvalore appongono il sigillo su questo sistema di dominio e sfruttamento. La moderna produzione industriale e la specializzazione della divisione del lavoro, consentono infatti di parcellizzare il processo della produzione (cioè ogni operaio svolge una sola funzione specializzandosi in questa), in modo tale da ottimizzare lo sfruttamento delle energie psico-fisiche del lavoratore e con ciò di aumentare enormemente la produttività del lavoro e la ricchezza prodotta. Il saggio di profitto si basa sul fatto che il lavoratore non viene pagato in funzione della sua effettiva forza lavoro, della ricchezza prodotta, ma il minimo indispensabile per poter vivere e riprodursi come forza lavoro. Dunque la specializzazione del lavoro industriale fa si che i lavoratori producano in metà giornata lavorativa il valore che corrisponde al salario che gli viene pagato, l’altra metà di giornata lavorativa costituisce «pluslavoro» che crea un «plusvalore», che però non viene pagato all’operaio ma di cui si appropria il capitalista sotto forma di profitti che consentono al capitale di crescere su se stesso. Dunque il capitale non è altro che lavoro non retribuito.

Marx «svela l’arcano della fattura del plusvalore». Come egli stesso scrive, la sfera della circolazione, dello scambio delle merci, entro cui si determina la compravendita della forza lavoro, era rappresentata dai teorici dell’economia politica come un «eden dei diritti innati dell’uomo dove regnano soltanto Libertà, Uguaglianza, Proprietà e Bentham»: la liberta consisterebbe nel fatto che compratore e venditore della forza lavoro troverebbero il punto d’intesa solo nella «libera volontà», vale a dire stipulerebbero il loro contratto come persone libere, giuridicamente pari. Proprio il contratto con cui si manifesta la loro libera volontà sarebbe l’espressione giuridica dell’eguaglianza. In questo eden dei rapporti sociali entrambe le parti sono messe sullo stesso piano e si compongono armonicamente sulla base del proprio utile, del vantaggio particolare della soddisfazione dei reciproci interessi privati.

E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro, tutti portano a compimento, per un’armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici d’una provvidenza onniscaltra, solo l’opera del loro reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell’interesse generale.(…) L’antico possessore del danaro va avanti come capitalista,il possessore della forza lavoro lo segue come suo lavoratore; l’uno sorridente con aria d’importanza e tutto affacendato, l’atro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la … conciatura[9].

Oggi gli economisti affermano che il capitale ha altre forme di remunerazione non più basate, in prevalenza, da lavoro non pagato, non ci spiegano però, per quale ragione allora continuano a delocalizzare la produzione nei paesi in via di sviluppo, alla ricerca del costo del lavoro più basso, mentre nei paesi a capitalismo avanzato, tutti i discorsi sulla “competitivià” ruotano attorno alla compressione salariale. È del tutto evidente l’attualità di una categoria come la falsa coscienza nella moderna società mediatica dove la sostanza delle cose è costantemente stravolta, dove la  povertà, la miseria, lo sfruttamento sono nascoste sotto il tappeto e della realtà ci viene fornita una immagine patinata e seducente. In tempo di crisi la parola d’ordine è “siamo tutti sulla stessa barca”, padroni e lavoratori, nessuno si incarica spiegare perché nei decenni passati, quando l’economia era in crescita, solo una parte si è arricchita sfacciatamente e senza limiti, mentre il potere d’acquisto di salari e pensioni si riduceva di anno in anno. Non si spiega perché l’incontestabile aumento di produttività, fatturati e profitti non si è tradotto nei millantati investimenti produttivi, miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, nuova occupazione, ma solo in rendita finanziaria, speculazione e privilegio sociale per pochi. Un compito straordinariamente rivoluzionario oggi è andare, come ha fatto Marx a suo tempo, alla radice delle contraddizioni della modernità con tutto il suo carico di mistificazioni, in modo da comprendere per quale ragione oggi un lavoratore in nero può immaginarsi imprenditore di sé stesso o un precario ritenere lo smantellamento del contratto collettivo nazionale una liberazione che ne rafforza l’autonomia di fronte al datore di lavoro. Se c’è chi sostiene che non esistono più le classi e il conflitto tra loro, proprio mentre una classe esercita senza mediazioni il suo dominio sulle altre, e questa tesi fa ampi proseliti persino tra le masse popolari, significa che in ciò va ricercato il valore operativo della falsa coscienza e la vittoria egemonica delle classi possidenti.

Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana[10].

Una visione del mondo criticamente coerente necessità della piena coscienza della storicità di essa, vale a dire del fatto che la concezione critica risponde a determinati problemi posti dalla realtà, è storicamente determinata, scaturisce da un peculiare sviluppo delle forze produttive, è una visione del mondo che si pone in contraddizione con altre visioni del mondo, a loro volta espressione di altri interessi storicamente determinati. Ma la creazione di una visione del mondo criticamente coerente, deve necessariamente assumere carattere unitario, deve cioè avere uno sbocco nella socializzazione e nella partecipazione collettiva agli assunti di questa filosofia. Creare una nuova cultura che si ponga criticamente rispetto al passato, significa anche socializzare le scoperte già fatte e farle divenire base di azioni concrete, rendere questa cultura «elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale» delle masse. Appunto, «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarl.



[1] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori riuniti, Roma, 1974, pag. 4

[2] K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Laterza, Bari, 1999.

[3]  F. Engels, Sul materialismo storico, Edizioni Riuniti , Roma 1949, p.75

[4] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1319.

[5] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 2000, pag. 37.

[6] «La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso […]», Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1994.

[7] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Editori riuniti, Roma, 1997, pag. 777.

[8] Ivi, pag. 787

[9] Ivi, pag. 209.

[10] Quaderni de carcere, cit. pag. 333.

Globalizzazione, liberalismo e falsa coscienza

Globalizzazione, liberalismo e falsa coscienza. 

Congresso internazionale

Filosofia e globalizzazione

Internationale Gesellschaft Hegel-Marx für dialektisches Denken

Napoli (27, 28, 29 Aprile 2006)

  

A cavallo tra XX e XXI secolo il pensiero liberale ha autocelebrato il suo «definitivo» trionfo planetario, attraverso la definizione di quel nuovo paradigma delle relazioni interne ed internazionali che tutti abbiamo imparato a conoscere come globalizzazione. Ciò ha dato luogo, nel breve volgere di pochi anni, ad una mole imponente di studi, ricerche e pubblicazioni tramite le quali si era preconizzata una nuova fase per la storia dell’umanità nella quale, a seguito della liquidazione delle residue strutture pre-moderne, tutto era destinato fatalmente a mutare per l’effetto dirompente delle leggi di mercato, indomabili a qualsiasi tentativo ideologico di regolazione politica.

Nelle loro previsioni teleologiche sulle sorti progressive del liberalismo, gli iperglobalisti hanno descritto spesso la globalizzazione come una marcia inevitabile dell’umanità verso un’unica società, o civiltà, mondiale capitalistica. L’esempio più lampante in merito, come è noto, è quello di Francis Fukuyama, che già in un articolo del 1989 avanzava l’ipotesi che la democrazia liberale, oramai trionfante nei confronti delle ideologie rivali, si ponesse come «il punto d’arrivo dell’evoluzione dell’umanità», la «definitiva forma di governo tra gli uomini», «la fine della «storia». Questo perché la democrazia liberale – a differenza delle altre forme di governo, tutte affette da difetti e irrazionalità – si era dimostrata in ultima analisi priva di contraddizioni interne profonde.

Le tesi sulla «fine dello Stato nazione» e sulla natura transnazionale del capitalismo globale parevano dare una spiegazione plausibile alle novità più superficiali ed emergenti che venivano fuori dallo scenario internazionale con la fine della guerra fredda. In proposito potrei fare riferimento alla sterminata bibliografia esistente, ma per restare in Italia uno degli esempi più emblematici della vulgata liberale sulla globalizzazione, anche per il periodo in cui è stato scritto, è il numero monografico Global o no Global di Ideazione1, uscito nel settembre 2001, che contiene alcune chicche di questa stagione. Nel solco tracciato da Fukuyama, seppur con un’attenuazione delle sue aspirazioni finalistiche, Vittorio Strada introduceva in questo numero il tema del rapporto tra liberalismo e globalizzazione a partire da un’affermazione che di per sé è già una conclusione. La vittoria del liberalismo sul totalitarismo novecentesco, deve avere coscienza anzitutto della forma triplice che esso ha assunto storicamente: comunismo-fascismo-nazionalsocialismo. Tre varianti che hanno per Strada momenti di «profonda comunanza strutturale (…) concreti rapporti di reciproca influenza» dunque elementi di solida affinità, seppur nell’ostilità rivale, riscontrabili negli elementi costitutivi di tipo istituzionale (partito unico, ideologia statale, mobilitazione di massa), ma soprattutto nel fatto che tutti e tre avrebbero avuto quali nemici principali la democrazia liberale, il socialismo democratico, e la religione cristiana, cui ogni totalitarismo avrebbe contrapposto la propria religione politica.

 

Stato, società civile e subalterni in Antonio Gramsci

Convegno Internazionale di studi

GRAMSCI IN ASIA E AFRICA

Cagliari 12-13 febbraio 2009

Dipartimento di Studi storico politico internazionali dell’Università di Cagliari

 

Stato, società civile e subalterni in Antonio Gramsci.

Di Gianni Fresu

 

Nell’ambito dei cosiddetti studi post-coloniali e subaltern studies, sebbene tra i due orientamenti sia giusto fare le opportune distinzioni, l’attenzione verso alcune fondamentali categorie gramsciane, Stato, società civile e gruppi subalterni, è di primaria importanza. Iain Chambers1 parla del grande salto compiuto nel pensiero critico occidentale da Gramsci e ri-elaborato da Said, in ragione del quale la lotta politica e culturale non si fonderebbe sul rapporto tra tradizione e modernità ma attraverso la dialettica tra «parte subalterna e parte egemonica del mondo». In essa risiede la convinzione che la cultura giochi un ruolo determinante nella definizione degli assetti di dominio e nella costruzione dei blocchi storico-sociali2. A partire da questa consapevolezza e dalla definizione del concetto di subalterno, Gramsci è presente costantemente negli studi post-coloniali, a volte anche in modo approssimativo e incoerente, attraverso la traslazione delle sue categorie, dalla dimensione storica e territoriale italiana a quella planetaria nel rapporto tra Nord e Sud del mondo o più precisamente nella condizione di subalternità imposta ad esso dall’Occidente.

A partire dalle profonde trasformazioni globali dei rapporti di sfruttamento, secondo alcuni tra i più celebrati autori di tali filoni di ricerca, il concetto di subalternità avrebbe subito un’evoluzione che sancisce una fuoriuscita dai canoni concettuali del cosiddetto «marxismo ortodosso»3. In questo modo, la questione sarebbe passata da un contesto segnato dal conflitto capitale/lavoro, a una dimensione di razza, etnia e territorio, oltre che di genere4. L’importanza della dimensione spaziale dei rapporti di dominio ed egemonia, la caratterizzazione geografica o territoriale del concetto di subalternità sarebbe stata presente già in Gramsci nella definizione del terreno comune tra masse contadine del Mezzogiorno e proletariato del Nord, così come sarebbe presente nel rapporto Oriente/Occidente. Non spetta alla mia relazione sviscerare gli assunti concettuali di tali orientamenti scientifici né mostrarne gli eventuali elementi contraddittori, bensì esporre, per quanto possibile, in via sintetica e chiara il rapporto organico che sussiste nell’opera di Gramsci tra quelle categorie fondamentali. In via preliminare si può però dire che alcuni degli utilizzi incoerenti delle categorie gramsciane, che talvolta ho riscontrato nei subaltern studies, e il fraintendimento della loro valenza politica, poggiano non solo sul fatto che spesso si sia arrivati a Gramsci attraverso letture di seconda mano, ma anche al loro utilizzo parziale, decontestualizzato dall’opera e dalla più complessiva attività politica dell’intellettuale sardo. In secondo luogo, tali letture omettono di trattare, o spesso non conoscono, tutto un dibattito teorico di estrema importanza nell’elaborazione concettuale di Gramsci: il contrasto tra materialismo dialettico e materialismo determinista, tra la concezione del marxismo come sintesi organica dell’economia politica inglese, del socialismo utopistico francese e della filosofia tedesca e il marxismo inteso nella sua sola dimensione storica e veicolato attraverso il positivismo e i canoni delle scienze naturali applicati meccanicisticamente alla storia dell’umanità. Infine, esse non tengono in alcun modo in conto dell’importanza dell’opera di Lenin per l’intellettuale sardo. Come cercherò di spiegare, se non si tiene conto del rapporto Lenin-Gramsci le categorie di egemonia, blocco storico, classi subalterne risultano solo parzialmente comprensibili. Stato, società civile e subalterni in Gramsci sono categorie strettamente e organicamente intrecciate tra loro, una trattazione per parti sarebbe praticamente impossibile. Oltre a questo, è un errore ritenere che esse si ritrovino in via esclusiva nella sola “produzione matura” dei Quaderni, al contrario, c’è una continuità tra l’elaborazione pre e post 1926 filologicamente rintracciabile sia negli scritti “giovanili” sia nei continui richiami espliciti dei Quaderni all’esperienza precedente5.

 

 

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Il terrorismo di sinistra in Italia, una storia tra “affinità e divergenze”

 

Il terrorismo di sinistra in Italia, una storia tra “affinità e divergenze”.

Di Gianni Fresu

 

L’eversione armata di matrice marxista, comparsa nel nostro paese negli anni Settanta, ha un retroterra politico e culturale che non può certo essere ritenuto totalmente estraneo alla tradizione della sinistra ed in particolare del suo più importante partito. Si è parlato spesso di “album di famiglia”, ciò che è certo è che la militarizzazione della sinistra rivoluzionaria si muove e sviluppa entro un canone piuttosto tradizionale. Questo nonostante una storia, quella dei comunisti, postasi in conflitto con la concezione stessa del terrorismo e malgrado il fatto che Lenin, nella sua elaborazione e battaglia politica, abbia a più riprese combattuto la tendenza a confondere lotta rivoluzionaria e terrorismo, mostrandone differenze e incompatibilità. Un dibattito assai concreto quello tra le forze rivoluzionarie russe a cavallo tra Ottocento e Novecento, proprio per le implicazioni politiche nel rapporto tra azione e rapporti sociali. Per Lenin la lotta di classe rivoluzionaria non aveva nulla da spartire con il modo di concepire il rapporto tra politica e violenza proprio del terrorismo, frutto di una concezione individualistica che si esprimeva nella mistica del “gesto”. Così, nei fatidici anni tra 1904-1905, Lenin era netto nel contrapporre lotta di classe e rivoluzione proletaria al metodo terroristico, da egli definito il «metodo specifico di lotta degli intellettuali» che non hanno alcuna fiducia nella vitalità e nella forza delle masse popolari e dunque pretendono di sostituirsi ad esse attraverso l’atto individualistico:

 

Quanto più pieno fu il successo dell’impresa terroristica, tanto più essa confermò l’esperienza fornitaci da tutta la storia del movimento rivoluzionario russo, un’esperienza che ci mette in guardia dai metodi di lotta quali il terrorismo. Il terrorismo è stato e rimane un metodo di lotta specifico degli intellettuali. E, comunque si valuti l’importanza del terrorismo, in quanto integrazione e sostituzione del movimento popolare, i fatti attestano in modo inconfutabile che gli attentati politici individuali non hanno da noi nulla in comune con gli atti di violenza della rivoluzione popolare. Ogni movimento di massa è possibile nella società capitalistica solo come movimento operaio classista. (…) Non fa meraviglia se tanto spesso, da noi, si trova tra i rappresentanti radicali (o radicaleggianti) dell’opposizione borghese gente che simpatizza per il terrorismo. Né fa meraviglia che tra gli intellettuali rivoluzionari siano particolarmente attratti dal terrorismo proprio quelli che non credono nella vitalità e nella forza del proletariato e della sua lotta di classe2.

Americanismo e fordismo: l’«uomo filosofo» e il «gorilla ammaestrato»

Americanismo e fordismo: l’«uomo filosofo» e il «gorilla ammaestrato»1.

di Gianni Fresu

 

Nell’indagare le trasformazioni che riguardano i modi di produzione e i sistemi di relazione sociale c’è sempre un rischio in agguato: cercare una scorciatoia nella semplificazione concettuale, evitare la fatica che uno studio serio e rigoroso necessariamente comporta. Nel campo del materialismo storico questa inclinazione ha portato anche serissimi studiosi a trovare un rifugio sicuro nel determinismo e nella teleologia proprio sulla base della tendenza a sopravvalutare elementi puramente particolari e contingenti della realtà. Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere più volte si è trovato a fare i conti con la tendenza all’approssimazione analitica, indotta dalla fretta e dalla volontà dilettantesca di giungere a facili conclusioni attraverso scorciatoie che, come ogni improvvisazione teorica, finiscono inevitabilmente per avere le gambe corte e riescono al massimo ad «indovinare all’ingrosso».

Nelle sue note più volte Gramsci metteva in guardia dalla tendenza a sottovalutare la complessità della realtà. Identificare, di volta in volta, staticamente e con precisione la struttura non è infatti un compito semplice, e in ogni caso nell’analizzare un «periodo strutturale» bisogna sempre tenere conto che esso può venire studiato in termini scientifici solo dopo che il periodo in questione ha superato tutto il suo processo di sviluppo, prima di allora si possono fare solo ipotesi. La poca attenzione nel distinguere ciò che è organico e relativamente permanente da ciò che è occasionale e contingente, ha generato le due tendenze del «dottrinarismo ideologico e pedantensco», che esalta l’elemento volontaristico individuale, e quella opposta dell’economismo volgare, che a sua volta sopravvaluta le cause meccaniche «strutturali». Occorre stabilire il nesso dialettico tra «movimenti e fatti organici» da una parte e «movimenti e fatti di congiuntura» dall’altra, non solo sul piano della ricostruzione storiografica – quando si tratta di ricostruire il passato – ma anche e soprattutto nell’arte politica – quando si tratta di costruire il presente e il futuro – e bisogna accuratamente evitare di farlo in base ai propri pii desideri e alle proprie passioni deteriori, piuttosto che ai dati reali.

Nel rilevare l’assenza di questo nesso dialettico tra movimenti e fatti organici emerge la mancanza di un elemento cruciale per la lettura e la comprensione della realtà, la dialettica. La complessità e contraddittorietà dialettica della realtà – sottovalutata da grandi intellettuali della Seconda Internazionale come Bebel e Kautsky – è un tema che angustia profondamente gli ultimi anni di vita di Friedrich Engels. In una lettera del 27 ottobre 1890 Engels con forza prende le distanze dalla volgarizzazione determinista del marxismo sottolineando la necessità di superarne il meccanicismo: «quel che manca a tutti questi signori [scrive Engels] è la dialettica. Essi vedono sempre e solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito»2.

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Gramsci: fascismo e classi dirigenti in Italia

Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia

Fondazione Istituto “Antonio Gramsci”, Fondazione Istituto Storico “Giuseppe Siotto”, Comune di Nuoro

 

Convegno nazionale di studi

Gramsci e la storia d’Italia

Nuoro il 5 e 6 ottobre 2007.

 

Gramsci: fascismo e classi dirigenti in Italia.

Gianni Fresu

 

  1. interpretazioni storiografiche sul fascismo, cenni.

 

Il fascismo è probabilmente il tema politico che nella storia d’Italia ha dato luogo alla quantità maggiore di studi, una enorme produzione con diversità di approcci e molteplici implicazioni disciplinari. Stando al campo storiografico esso ha dato luogo a diversi canoni interpretativi che si sono caratterizzati per aver posto la propria attenzione su questo o quell’aspetto – storico, economico, sociale o morale – costitutivo o predominante del fenomeno. Come è noto Renzo De Felice, uno dei massimi studiosi del fascismo, si è confrontato con le diverse interpretazioni storiografiche.

Per Renzo De Felice1 il fascismo è uno dei grandi fenomeni del Novecento, tuttavia, esso non è dilatabile al di fuori dell’Europa e del periodo compreso tra le due guerre. Dunque sarebbero del tutto fuorvianti le generalizzazioni che tendono a coprire con l’aggettivo fascista tutte le varianti e tipologie di regimi autoritari e reazionari. Le radici del fascismo sono tipicamente europee e legate alla crisi indotta dal trapasso nella società di massa, e in particolare sono peculiari di quelle società che hanno vissuto le profonde trasformazioni di quel periodo condizionate dai ritardi e dalle debolezze politiche ed economiche ereditate dalla loro storia. Senza entrare in dettaglio su tutte le varianti di questi canoni interpretativi, per comprendere la particolarità e la complessità della lettura gramsciana, penso sia utile soffermarsi, brevemente e in via preliminare, sulle tre interpretazioni fondamentali del fenomeno in rapporto alla Storia d’Italia:

“2001 Odissea nel Contratto”

2001 Odissea nel Contratto”

 Gianni Fresu

 

Il tema della politica dei redditi è assolutamente centrale tra le grandi emergenze del paese, ciò nonostante esso è pressoché assente dai grandi argomenti della politica italiana (tanto nel centro destra quanto nel centro sinistra). Eppure è sempre più evidente, la questione salariale è una delle più sentite dall’opinione pubblica, perché il progressivo ridursi del potere d’acquisto nel corso degli ultimi quindici anni è talmente palese e incontrovertibile da non poter essere misconosciuto da nessuno. Malgrado questo, le disastrose politiche dei redditi avviate negli anni Novanta e attualmente perseguite continuano ad essere rivendicate e riproposte con testarda protervia dalle forze moderate o conservatrici di entrambi i poli.

Sono le nude cifre a dimostrare l’insostenibilità dell’attuale condizione di ripartizione della ricchezza prodotta tra profitti e salari. Nel decennio 1993 – 2003 il 3% del PIL è passato dal monte salari ai profitti delle imprese. I dati resi noti nella primavera 2004 dall’Osservatorio dell’industria metalmeccanica della FIOM CGIL, ci parlano di una perdita netta per gli operai di questo settore del 5,8% negli ultimi dieci anni, questo significa che su un salario medio di mille euro, ne mancano circa 60, vale a dire 800 euro l’anno. E la perdita del potere d’acquisto è ancora maggiore con l’abbassarsi del reddito, variando tra il 7% e il 14% per i redditi tra i 10 e i 30 mila euro.

Dal 2004 ad oggi la situazione è ulteriormente peggiorata, al punto che si è determinato un drammatico innalzamento della soglia di povertà tanto da coinvolgere nuovamente – cosa che non accadeva dal dopoguerra – fasce sempre più importanti di lavoro dipendente. Secondo i dati sulla povertà calcolati sui consumi medi, resi noti dall’ISTAT nell’ottobre 2005, ben 2,6 milioni di famiglie risultano al di sotto della soglia di povertà vale a dire l’11,7% della popolazione rispetto al 10,8% dell’anno precedente. Povertà che dilaga tra giovani, anziani e donne specie nel Sud Italia dove una famiglia su quattro vive al di sotto di questa soglia e dove il 25% delle famiglie è nella cosiddetta fascia delle famiglie “relativamente povere”.

La situazione non è minimamente mutata con il governo di centro sinistra, a conferma del fatto che le politiche di rigore monetario e la scelta di puntare tutto sul cuneo fiscale hanno avvantaggiato ancora il capitale e non certo il lavoro.

Questione meridionale e questione sarda. I temi dell’Autonomia e l’elaborazione dei comunisti.

Questione meridionale e questione sarda.

I temi dell’Autonomia e l’elaborazione dei comunisti.

Gianni Fresu

 

 

  1. Democrazia progressiva e autonomia.

 

Nella storia del movimento operaio italiano il Partito comunista, in alcune fasi della sua esistenza, ha saputo divenire un efficace strumento di partecipazione popolare grazie anche alla sua capacità di leggere le peculiarità storiche, economiche, sociali e culturali del nostro paese, costruendo su esse una prospettiva socialista che non fosse una riproduzione «pappagallesca» della teoria generale marxista. In questo senso la lezione leniniana sulla necessità di concentrarsi nello studio delle specificità di ogni singola «formazione economico-sociale», piuttosto che dedurre deterministicamente dalle leggi generali dell’economia le ragioni del socialismo e l’inevitabilità della rivoluzione, ha lasciato un solco profondo su cui si è innestata una elaborazione assai originale nella sua ricchezza e articolazione. Di questa ricchezza fa parte sicuramente lo sforzo per leggere nelle diversità dei rapporti di sfruttamento delle varie realtà italiane una trama unitaria, in ragione della quale, ad esempio, la questione meridionale andava intesa come grande questione nazionale, come crocevia attorno al quale ruotavano alcuni dei principali snodi degli assetti di dominio della società italiana.

All’interno di questa storia si inserisce anche la questione sarda e il tema dell’autonomismo nell’elaborazione dei comunisti. Essa nasce e si sviluppa con una prospettiva storicistica che ha quale dato di partenza due elementi nodali: 1) la condizione di oppressione secolare del popolo sardo nel corso delle diverse dominazioni, oppressione che ha trovato nei molteplici frangenti storici il fattivo sostegno delle stesse classi dirigenti sarde; 2) la marginalizzazione dei movimenti culturali e politici della Sardegna – da parte della letteratura storica e scientifica italiana – la sottovalutazione sistematica, sul piano politico, del diritto all’autodeterminazione culturale e politica, pur nel quadro unitario dello Stato italiano.

Il punto di approdo dell’autonomismo comunista si situa in una nuova concezione di sardismo inteso come terreno d’incontro tra gruppi intellettuali e masse sarde nella prospettiva del socialismo.

Per affrontare con sufficiente chiarezza questo tema è opportuna una precisazione preliminare sul contesto che gli fa da sfondo, più precisamente sulla situazione che caratterizza il PCI all’indomani della caduta del fascismo.

Con la «Svolta di Salerno» il PCI intraprendeva la strada dell’unità di tutte le forze antifasciste, comprese quelle stesse forze che avevano reso possibile e agevolato l’ascesa del fascismo (monarchia, esercito, liberali), rinviando la questione istituzionale su forma di Stato e forma di governo a liberazione avvenuta. Questa svolta, decisiva nel processo di liberazione del nazifascismo, impegnava i comunisti nella ricostruzione del quadro democratico senza alcuna ambiguità tattica o «doppiezza», si trattava di una scelta strategica destinata a mutare il ruolo dei comunisti nella storia d’Italia.

 

Ma come è stato ampiamente rilevato in sede storiografica, la «Svolta di Salerno», nel Sud e nelle Isole non si traduce immediatamente in una radicale riorganizzazione del modo di operare dei comunisti. Nel Mezzogiorno permangono limiti enormi sia tra le file dell’antifascismo, sia tra quelle del Partito comunista. Su questi limiti si è soffermato con attenzione Antonello Mattone:

 

Lo stesso dibattito interno sulle tematiche della svolta registra un dualismo di esperienze opposte tra le organizzazioni comuniste del Nord e quelle meridionali. Mentre nel Nord l’atteggiamento dei quadri è volto ad approfondire i contenuti della formula di democrazia progressiva e l’articolazione della nuova società antifascista attraverso i CLN, nel Mezzogiorno prevale la preoccupazione, frutto di un massimalismo generico e sovente anche messianico, di riaffermare i principi del comunismo e la purezza classista della linea politica. In definitiva il partito nel Meridione si pone al di fuori della linea indicata nella svolta; nel migliore dei casi essa viene interpretata come un espediente tattico necessario per la conquista del potere. Atteggiamenti e orientamenti settari sono assai diffusi nel partito, ne costituiscono quasi una doppia anima1.

 

Dall’8 settembre in poi si fa largo una realtà frammentata che a stento può essere identificata con una entità nazionale unitaria; non a caso Spriano, in proposito, ha parlato di tante Italie all’interno delle quali si diramano ulteriori sottoframmentazioni addirittura municipali. Tra esse proprio la Sardegna si distingue per il suo totale isolamento.

Se nel confronto tra le esperienze dei comunisti del Nord e quelli del Sud era possibile parlare di dualismo, rispetto alla Sardegna la differenza era ancora maggiore, perché l’isolamento geografico e l’assenza di contatti con la ricostituita direzione nazionale aveva lasciato fuori il PCI sardo dalla dialettica innescata dalla «Svolta di Salerno», che era stata recepita nell’isola come un «abile espediente tattico» ancora più che nel resto del Mezzogiorno.

In Sardegna il partito, che muove i suoi primi passi, si trova di fronte ad un compito immane di ricostruzione delle sue basi. Per andare oltre la condizione di silenzio e isolamento che i lavoratori sardi avevano dovuto subire per un intero ventennio, compito primario era di non ricadere nelle divisioni corporative che avevano limitato la sua forza egemonica nel passato, quando il movimento socialista rimase recintato nei bacini minerari limitandosi alle sole rivendicazioni degli interessi operai. Bisognava cioè unificare, sul piano politico generale, le rivendicazioni parziali della classe operaia, delle masse contadine e agro pastorali, in unico movimento popolare sardo capace di dettare l’agenda delle priorità della ricostruzione e l’orientamento del nuovo modello di sviluppo. I lavoratori dovevano liberarsi per sempre dallo sfruttamento secolare a cui erano stati sottoposti, il che significava liberarsi non solo dal dominio padronale straniero, ma contrastare da posizioni di forza anche quello sardo, per porsi essi stessi come nuova classe dirigente dell’Isola. Ma tra i comunisti sardi si afferma anche una tendenza storicamente radicata, seppur minoritaria, con ispirazione indipendentista.

Al primo Congresso regionale del partito, svoltosi a Iglesias il 13 e 14 marzo del 1944, una delegazione di comunisti galluresi si presentò chiedendo di essere accreditati all’assise in qualità di membri e delegati del Partito comunista sardo, del quale esisteva uno statuto e un programma. La richiesta venne respinta all’unanimità e si offrì al gruppo del PCS di partecipare ai lavori senza diritto di voto. Il gruppo del PCS si era sviluppato, fondamentalmente nella provincia di Sassari, nel caos organizzativo e politico proprio del periodo che va dal dicembre del 1943 al giugno 442.

Il PCS nel suo manifesto si richiamava all’ideale della Repubblica federativa sovietica della metà degli anni venti e indicava come obiettivo programmatico la costituzione di una autonoma Repubblica sarda degli operai e dei contadini. Nel solco tracciato dal Krestintern del 1925 il PCS riproponeva l’alleanza strategica con il PSd’A e intendeva federarsi al Comintern (in realtà già sciolto per l’alleanza contro il nazifascismo) autonomamente dal PCI. Il PCS, pur ricollegandosi alla linea del PCI, «riteneva che la Sardegna fosse una realtà a sé stante e che male sopportasse l’imposizione di forme istituzionali e di organismi politici propri del continente; individuava nella politica fiscale dello Stato la causa dell’arretratezza dell’isola e criticava l’incapacità del liberalismo, del fascismo, ma anche del socialismo, di dare alla Sardegna un assetto politico e istituzionale consono alle sue peculiarità. Solo al sardismo si riconosceva di aver compiuto uno sforzo in tale direzione, peraltro inadeguato per carenze organizzative e programmatiche»3.

L’emergere, ed eventualmente il prevalere, di posizioni isolazioniste, come quelle del PCS, tra i comunisti sardi avrebbe potuto significare l’autoestromissione della Sardegna dal profondo processo di rinnovamento democratico di cui la Resistenza antifascista era protagonista, ciò indusse tutto il gruppo dirigente sardo del PCI a combattere con durezza le posizioni separatiste, così come i residui di settarismo che ancora galleggiavano tra i suoi quadri e militanti, il partito doveva operare a stretto contatto con le condizioni materiali di esistenza delle classi subalterne, la sua composizione sociale e la sua direzione politica dovevano sorgere naturalmente da esse. Il «Partito nuovo» non poteva più essere l’organizzazione degli avvocati e dei professori, doveva realmente divenire il partito dei lavoratori.

 

2. Da Lione alla Questione meridionale, l’alleanza operai-contadini.

 

Costruire in Sardegna un Partito di lavoratori di massa significava affrontare di petto la questione contadina ed investire tutte le proprie energie nella costruzione di un movimento avanzato tra le masse dei contadini senza terra e i braccianti per sottrarli all’influenza e alla direzione della Chiesa e dei movimenti più conservatori.

In Sardegna favorire la nascita del movimento cooperativo tra contadini e pastori era l’unico modo per superare la dispersione sociale e territoriale di quelle realtà e anche il modo per dare un radicamento di massa al partito. Bisognava lavorare nel movimento contadino fino a svilupparlo e a farne una forza sociale capace di incidere sugli equilibri politico-sociali dell’isola.

L’emergere di una questione meridionale, e al suo interno di una specifica questione sarda, erano scaturite dal tentativo di tradurre in italiano la teoria politica di Lenin, a partire dal tema dei temi, per quel tempo: l’alleanza operai-contadini, che si era rivelata determinante per la vittoria della rivoluzione d’ottobre. Le riflessioni delle Tesi di Lione e la Questione meridionale, rispondevano esattamente a questa esigenza nel tentativo di disarticolare il blocco sociale reazionario che dominava l’Italia dall’Unità all’avvento del fascismo.

Secondo le Tesi di Lione, l’elemento predominante della società italiana era dato da una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo ancora debole ed incapace di assorbire la maggioranza della popolazione e un’agricoltura che costituiva la base economica del paese, segnata dalla netta prevalenza in essa di ceti poveri (bracciantato agricolo) molto prossimi alle condizioni del proletariato e perciò sensibili alla sua influenza.

Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza del modo di produzione in Italia – che non poteva disporre di materie prime – spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi latifondisti agrari che si basavano su «una solidarietà di interessi» tra ceti di privilegiati a detrimento degli interessi generali della produzione e della maggioranza della popolazione. Anche il processo risorgimentale era espressione di questa debolezza, perché la costruzione dello Stato nazionale era stata possibile grazie allo sfruttamento di particolari fattori di politica internazionale e il suo consolidamento aveva necessitato quel compromesso sociale che ha reso inoperante in Italia la lotta economica tra industriali e agrari, la rotazione di gruppi dirigenti, tipici di altri paesi capitalistici. Secondo Gramsci, questo compromesso a tutela di uno «sfruttamento parassitario» delle «classi dominanti» aveva determinato una polarizzazione tra l’accumulo di immense ricchezze in ristretti gruppi sociali e la povertà estrema del resto della popolazione; aveva comportato il deficit del bilancio, l’arresto dello sviluppo economico in intere aree del paese (come il Mezzogiorno), ostacolando una modernizzazione del sistema economico nazionale armonica e calibrata con le caratteristiche del paese.

Il compromesso tra industriali e agrari attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato diveniva come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stessa funzione delle categorie sociali delle colonie che si alleano con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. Tuttavia nella prospettiva storica questo sistema di compromesso si è rivelato inefficace perché si è trasformato in un ostacolo allo sviluppo tanto dell’economia industriale, quanto di quella agraria; ciò ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse. In Italia il processo d’unificazione nazionale non si è realizzato sulla base di un rapporto d’uguaglianza, ma attraverso una relazione squilibrata all’interno della quale l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendono strettamente dal crescente impoverimento del Mezzogiorno. Nella Questione meridionale, premessa fondamentale alle riflessioni sul Risorgimento nei Quaderni, Gramsci definisce il Mezzogiorno come una grande disgregazione sociale, all’interno della quale i contadini non hanno alcuna coesione tra di loro. Le masse contadine, che costituiscono la maggioranza della popolazione meridionale, non riuscendo a dare «espressione centralizzata» alle proprie aspirazioni, materializzano il loro perenne fermento attraverso uno stato di ribellismo endemico privo di prospettive. Al di sopra di queste masse si struttura l’assetto di dominio del blocco agrario che, attraverso le sue «proporzioni definite», riesce a mantenere le masse contadine permanentemente nella loro condizione «amorfa e disgregata» e ad evitare qualsiasi forma di centralizzazione a quello stato di perenne fermento. L’esito del Risorgimento entro un equilibrio moderato non ha fatto altro che innestare su questa secolare struttura di potere il dominio del capitalismo settentrionale saldatosi, dopo l’unità, a quello della borghesia agraria del Sud in un nuovo blocco storico la cui chiave di volta risiedeva nella funzione degli intellettuali. Gramsci dunque nel porre la questione contadina come questione meridionale rappresenta quest’ultima come questione nazionale, all’interno della quale si situa con le sue specificità geografiche storiche e culturali, una questione sarda.

 

  1. La dialettica con la DC alla Costituente e l’emergere della questione autonomistica.

 

Tuttavia nel PCI del dopoguerra per giungere nuovamente a questa consapevolezza, e ricomporre il filo interrotto con l’elaborazione della metà degli anni 20’, occorreranno anni e un lungo processo di lotte e riflessioni. Bisogna infatti ricordare che nel dibattito dell’Assemblea costituente la posizione del PCI era più orientata verso il municipalismo, che rivendicava la continuità storica con la tradizione dei Comuni e intendeva mettere a valore il patrimonio delle «cento città»; era una posizione che si basava sulla necessità di un forte decentramento amministrativo a comuni e province ma sul rispetto assoluto dell’unità politico territoriale del paese e quindi della potestà legislativa centrale. Il PCI interpretava al tempo la funzione delle regioni ordinarie come enti autarchici e organi di largo decentramento amministrativo. Secondo quella posizione, la creazione di una struttura federale o a forte regionalismo avrebbe invece portato al consolidarsi dei blocchi di potere che dominavano il Mezzogiorno acuendo la frattura tra Nord e Sud, ma soprattutto avrebbe impedito l’attuazione organica ed omogenea delle riforme a carattere generale, le cosiddette «riforme di struttura». Dunque solo per Sardegna e Sicilia si prevedeva un ipotesi di specialità nell’attribuzione di competenze, facendo però salva la capacità impositiva e d’intervento dello Stato, che era ritenuto il solo organo capace di reperire le risorse e approntare gli strumenti per le profonde trasformazioni economiche e sociali che le due Isole necessitavano.

Sul terreno dell’articolazione dei poteri e della struttura regionale il PCI alla Costituente esprimeva ancora una posizione molto arretrata seppur imposta da un contesto assai complesso: si riconosceva che l’istituzione delle regioni avrebbe avvicinato il popolo alle amministrazioni attraverso il decentramento, ma si sottolineava altresì che qualora alle regioni fossero stati attribuiti poteri esorbitanti da quelli della semplice amministrazione, fino a determinare una potestà legislativa esclusiva ed anche concorrente, la posizione del PCI sarebbe stata contraria.

Una tale accelerazione, più che la democratizzazione di ampi settori e rami della vita politica del paese, avrebbe favorito, secondo i comunisti, il frazionamento del potere legislativo e la disgregazione dell’unità organica del paese. La preoccupazione del PCI era che con la frammentazione politica del paese importanti riforme socio-economiche, come ad esempio una profonda riforma agraria, o la nazionalizzazione di importanti settori dell’economia (si pensi alla produzione e distribuzione dell’energia elettrica), avrebbero trovato mille ostacoli nell’applicazione. In questo modo si sarebbe stabilito nel corpo della democrazia italiana un sistema per compartimenti stagni. Sempre secondo questo ordine di ragionamenti il PCI si espresse contro il principio della autonomia della Magistratura, palesando il rischio che la magistratura divenisse un corpo a sé stante regolato da modalità di autogoverno proprie.

Su questa posizione sicuramente aveva influito il timore che la Magistratura (come più in generale la burocrazia e le forze armate) ereditata dal Ventennio potesse divenire un autonomo capace di condizionare negativamente il processo democratico. Le paure espresse in tal senso erano le prime avvisaglie di un clima nuovo che andava mutando nel paese proprio in quei mesi. Il 31 maggio del 1947, con l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo, «si archiviava definitivamente la realtà politica uscita dalla resistenza; cominciava una dura stagione della Repubblica»4.

Sull’articolazione dei poteri le posizioni dei comunisti mutano profondamente nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta e nell’orientare questo mutamento l’azione e l’elaborazione di alcuni comunisti sardi è determinante. Inizialmente però, all’indomani della caduta del fascismo, sul tema dell’autonomia anche il PCI sardo ha scontato un ritardo notevole e ha commesso diversi errori. Le cause di tale ritardo e dell’iniziale propensione antiautonomista dei comunisti sardi erano molteplici e ramificate. Tra queste bisognava considerare anzitutto l’origine dei dirigenti che ripresero l’attività nel 1943: molti di essi provenivano dall’attività clandestina, erano quadri che avevano oramai metabolizzato una concezione settaria dell’agire politico; altri ancora provenivano dal Partito socialista che tradizionalmente era più attento alle questioni delle zone urbane ed industriali piuttosto che alle questioni contadine. Oltre a ciò c’era la contrapposizione alle frange del movimento indipendentista che aveva contribuito a rendere sospettosi, se non proprio ostili, i comunisti sardi verso ogni discorso autonomistico. Per lungo tempo la maggioranza dei comunisti sardi ha considerato fuorviante e interclassista la parola d’ordine dell’unità di tutti i sardi per l’autonomia.

Da tutto ciò derivavano l’atteggiamento incerto e attendista e i ritardi nella piattaforma politica, che si palesarono al primo Consiglio Nazionale del PCI tenutosi a Roma nell’aprile del 1945 dove la delegazione sarda era composta da Renzo Laconi, Antonio Dore e quindi Giovanni Lay che in proposito ha scritto:

 

In quell’occasione io fui aspramente criticato da Togliatti perché feci un intervento che suonava pressappoco così: “i contadini e i pastori sardi non sanno che farsene di un’autonomia regionale guidata dai proprietari terrieri e dai nemici della Sardegna che sono presenti anche nell’Isola. Noi dobbiamo batterci per un’autonomia che sia strumento di progresso sociale ed economico, che liberi il popolo sardo dalla miseria e dallo sfruttamento, che salvi le miniere, che valorizzi le risorse umane ed economiche della Sardegna”.

Nelle conclusioni dei lavori del Consiglio nazionale Togliatti disse: “Se il compagno Gramsci fosse stato qui presente e avesse udito un comunista sardo, per giunta dirigente del Partito in Sardegna, sostenere che i contadini sardi e i pastori non sanno che farsene dell’autonomia, certamente ne sarebbe rimasto molto sorpreso”. (…) Togliatti criticò i dirigenti del Partito in Sardegna non tanto per quello che era stato detto in quella sede, ma per il fatto di non essere stati ancora capaci di impegnare le masse popolari sarde nella battaglia per “togliere la bandiera dell’autonomia” dalle mani di quelli che pensavano di fare dell’autonomia regionale la loro cittadella per la difesa dei loro interessi di classe, e farla passare nelle mani della classe operaia5.

 

Anche se non solo in ragione di questo fatto, la rivendicazione autonomista viene ad essere assimilata solo dopo il superamento del “pericolo” rappresentato dalla prospettiva del PCS.

Sul versante istituzionale poi, la Consulta tardò enormemente ad elaborare un proprio progetto, mentre già dal maggio del 1946 il Governo aveva promulgato lo Statuto speciale siciliano. Come è noto Lussu, storico leader del sardismo, preoccupato per i ritardi e per l’irrigidimento della DC sulle questioni autonomistiche, si adoperò presso i rappresentanti della Consulta per ottenere l’estensione dello Statuto siciliano alla Sardegna ottenendone un rifiuto. Anche la delegazione del PCI si unì nel rivendicare alla Consulta il compito di scrivere il proprio Statuto, con il risultato di ritardare fino alla fine del gennaio 1948 la promulgazione di uno Statuto dai contenuti autonomistici decisamente più blandi di quello siciliano.

 

4. Renzo Laconi e la svolta autonomista.

 

Il II Congresso regionale del PCI, tenutosi a Cagliari nel maggio del 45, non era stato in grado di realizzare sino in fondo la svolta da tutti attesa; a pagarne le spese fu il Segretario regionale Antonio Dore sostituito da Velio Spano, il più autorevole ed esperto tra i comunisti sardi. Il tutto avvenne nella conferenza regionale del Partito tenutasi nell’aprile 1947 a Cagliari e presieduta da Palmiro Togliatti, che aveva sferzato duramente i ritardi del Partito sardo rispetto al resto d’Italia e polemizzato contro le resistenze alla linea nazionalmente definita. Le contraddizioni in cui si dibattevano i comunisti sardi erano per Togliatti dovute al loro modo di ricondurre le questioni dell’autonomia direttamente alle contraddizioni di classe, senza comprenderne la valenza democratica. Afferrare il significato democratico e non di classe della questione autonomistica significava renderla battaglia unitaria di tutte le forze democratiche, bandiera dell’intero popolo sardo. Per Togliatti recintare settariamente la battaglia autonomistica alle sole classi subalterne ne avrebbe depotenziato la spinta, senza peraltro agevolare il compito di conquista egemonica dell’articolazione sociale da parte dei lavoratori. Le classi subalterne dovevano divenire classe dirigente nell’allargamento progressivo degli spazi di democrazia sociale, economica, politica, e anche le lotte per l’autonomia costituivano un banco di prova, una verifica della maturità dei comunisti.

L’obiettivo posto da Togliatti era costruire il grande partito delle masse sarde. Dunque, nonostante la dialettica della Costituente avesse spinto il PCI su posizioni piuttosto rigide, fu proprio Togliatti a sollecitare una svolta autonomistica tra i comunisti sardi. Di questa svolta diviene protagonista assoluto un giovane dirigente, Renzo Laconi, destinato ad essere l’interprete più originale della concezione togliattiana sul «Partito nuovo» in Sardegna.

Renzo Laconi, oltre ad essere stato uno dei più autorevoli dirigenti comunisti del partito in Sardegna, è stato stretto collaboratore di Togliatti. A soli trenta anni è eletto nell’Assemblea costituente e, nonostante la sua giovane età, diviene membro della Commissione dei settantacinque, incaricata di redigere il disegno costituzionale; partecipa alla Commissione ristretta dei diciotto, quando Togliatti è impossibilitato a prendervi parte; è il relatore del gruppo comunista sul disegno costituzionale e in tale vece apre gli interventi dei comunisti nella discussione generale dell’Assemblea.

Laconi pose costantemente la questione autonomistica al centro della sua azione di costituente. In tal senso intervenne all’Assemblea Costituente, richiamando con urgenza il licenziamento dello Statuto autonomistico della Sardegna, già approvato il 29 aprile del 1947 dalla Consulta regionale e quindi presentato dall’Alto Commissario al Governo De Gasperi. La situazione economica e sociale della Sardegna richiedeva infatti un intervento rapido, perché se era vero che le condizioni di arretratezza dell’Isola avevano radici secolari, lo era altrettanto che il ventennio fascista e la guerra ne avevano aggravato la patologia.

In quest’importante intervento Laconi rivendicava al PCI l’eredità di un processo di emancipazione che affondava le sue radici nelle lotte antifeudali e più in generale nelle aspirazioni storiche del popolo sardo. Le ragioni dell’autonomismo sardo non venivano per Laconi solo da motivi storici o geografici ma dal modo stesso attraverso cui si è sviluppato il rapporto della Sardegna con il Piemonte prima e l’Italia poi. L’annessione della Sardegna era infatti il frutto di un atto diplomatico militare e non del processo di rinnovamento sociale e unificazione economica che ha contraddistinto il Risorgimento. In tal senso Laconi si richiamava alle secolari lotte di contadini e pastori contro la signoria feudale per gli usi civici della terra, riaffiorati con la legge delle chiudende del 1820 e l’editto istitutivo della proprietà perfetta, che aboliva il feudalesimo nell’Isola, del 1836. Anche quelle riforme, nate con l’intento di giungere alla modernizzazione economica dell’isola, non mutarono la natura dello sfruttamento coloniale delle risorse sarde da parte prima del capitalismo mercantile e poi di quello industriale. Da ciò le contraddizioni mai sanate tra le esigenze di progresso e una realtà fatta di isolamento e miseria, dove l’unico rifugio possibile era nella tradizione dei modi di vita, lavoro e relazione sociale.

 

E da questa contraddizione scaturisce, ancora, sulle labbra del pastore e del contadino isolano il grido che guidava i padri nelle lotte contro il Piemonte: torrare a su connottu; sos muros a terra, grido che non risponde certo ad una chiara prospettiva politica, che non indica, forse, esattamente la strada di rinnovamento dell’economia isolana, ma esprime la ribellione dell’uomo semplice contro uno stato di cose ingiusto e il rimpianto dei tempi passati, migliori forse del presente6.

 

Per queste ragioni qualsiasi movimento culturale e politico degno di questo nome, sorto in Sardegna, non poteva che assumere carattere regionale e autonomistico. Ciò trovava puntuale riscontro nella letteratura sarda, nelle lotte, nella propaganda, nella politica isolana.

 

Riassunta venticinque anni fa in un programma politico della corrente che faceva capo al Partito sardo d’azione, condivisa dalle componenti più avanzate del movimento socialista, la rivendicazione autonomistica è oggi patrimonio di tutti i partiti dell’Isola e costituisce la comune rivendicazione di tutti i sardi7.

 

Era dal riconoscimento di questa storia che il diritto di cittadinanza dei sardi, nello Stato italiano rinnovato, andava ricostruito su basi politiche nuove.

In Sardegna la consapevolezza sul valore democratico della battaglia autonomista era anche il risultato delle esperienze di lotta popolare (dai contadini di Bonorva, ai pastori, ai minatori del Sulcis, ai pescatori degli stagni). Questo perché le condizioni di arretratezza e miseria della Sardegna avevano sicuramente un’origine riconducibile ai rapporti sociali di produzione esistenti, ma chiamavano fortemente in causa la struttura centralizzata di una amministrazione burocratica, sempre più sclerotica e inefficiente, l’inadeguatezza della struttura giuridica e politica del paese. Per vincere i mali della Sardegna bisognava farla uscire dalla condizione di passività a cui era stata condannata nei secoli dai diversi dominatori, farla divenire soggetto attivo del suo sviluppo e della sua emancipazione. Ciò inevitabilmente doveva passare da un profondo rinnovamento democratico della struttura amministrativa e la creazione di una specifica legislazione adatta alle esigenze della Sardegna, vale a dire dall’attuazione dell’autonomia regionale.

 

 

  1. Autonomia, programmazione economica. La stagione delle lotte per la Rinascita.

 

Proprio sul tema dell’autonomia regionale in quegli anni si era venuta a determinare una inversione di posizioni tra DC e PCI: la prima sostiene inizialmente un’ipotesi riformatrice di forte decentramento regionale e poi però ritarda enormemente la creazione delle regioni ordinarie; il PCI invece, assume in un primo momento un atteggiamento ostile verso ogni ipotesi di ridimensionamento delle prerogative dello Stato centrale, per poi fare propria la rivendicazione regionale come riforma imprescindibile.

Nonostante questa dialettica, sul piano regionale si era invece registrata una convergenza sull’esigenza della programmazione economica regionale che aveva trovato traduzione nel piano quinquennale, elaborato tra marzo e febbraio 1947 e presentato dall’Alto Commissario Pietro Pinna. Il piano raccoglieva le istanze provenienti dai territori e dalle comunità locali e chiedeva al Governo lo stanziamento di ottantacinque miliardi di lire per le opere infrastrutturali viarie, portuali, ferroviarie, per la realizzazione di sistemi fognari e idrici, per una elettrificazione dell’Isola che ne agevolasse l’industrializzazione. In tale direzione era prevista l’istituzione del Banco di Sardegna, la creazione di un unico ente sardo per l’energia elettrica e la acquisizione pubblica del sistema ferroviario complementare.

Nonostante questa convergenza a livello regionale l’approvazione dello Statuto e del Piano Pinna, trovarono un ostacolo insormontabile nelle scelte del governo nazionale, che nell’estate del 1947 respinse il Piano per mancanza di copertura finanziaria. Tutto questo aveva portato il PCI ad organizzare la mobilitazione per l’autonomia, con una grande manifestazione popolare, alla quale aveva aderito anche la DC, e il convegno regionale dei partiti autonomisti del settembre del 1947, nel quale era stata lanciata la parola d’ordine della lotta unitaria dei partiti sardi per l’autonomia. Come è noto lo Statuto venne approvato, seppur ampiamente modificato e profondamente ridimensionato, rispetto a quello approvato dalla Consulta, solo il 31 gennaio del 1948, cioè allo scadere del mandato dell’Assemblea Costituente.

La delusione suscitata da questo esito fece scaturire un inasprimento della dialettica politica tra DC e PCI. Ne è un esempio l’articolo al vetriolo scritto da Velio Spano per «Il Lavoratore» intitolato Regionalismo democristiano8. In esso Spano riportava l’ultima discussione in seno alla Costituente e accusava la DC di aver sacrificato le ragioni autonomistiche della Sardegna sull’altare dei suoi piccoli interessi. Gli ostacoli frapposti e il risultato conseguito chiarivano per Spano che il partito di De Gasperi considerava «La Sardegna come una riserva possibile della reazione» ed era mosso dalla volontà di «isolarla da ogni influenza democratica». Al contrario si sarebbero dovuti riconoscere «i torti secolari che sono stati fatti alla Sardegna» risarcendo il popolo sardo e mostrando fiducia nei suoi confronti. A questo articolo ne seguiva un altro, pubblicato il 7 febbraio su «Il Lavoratore», nel quale Spano parlava di «cretinismo paternalistico savoiardo» riemergente e polemizzava duramente con la tesi secondo cui lo Statuto approvato era persino troppo avanzato per i sardi.

 

[tale tesi, scrive Spano] mette a nudo le vere intenzioni di quei parrucconi di costituzionalisti continentali e di politicanti sardi che avevano cercato di nascondere la loro pelle di anti-autonomisti sotto le vesti del regionalismo. Ecco il punto! Che cos’era dunque il regionalismo di lorsignori?

Noi concepivamo e concepiamo lo Statuto come un mezzo che aiuti il popolo sardo a camminare, a camminare svelto. Quei signori concepiscono lo Statuto come un osso gettato a un cane per evitare che ringhi. Noi siamo autonomisti, siamo sardisti, quei signori sono regionalisti. E il loro regionalismo mostra oggi apertamente la sua doppia faccia sociale e politica: la faccia sociale conservatrice della vecchia e fallita classe dominante la quale, stabilendo una eguaglianza giuridica formale tra le regioni italiane, vuole in realtà sancirne la disuguaglianza profonda e perpetuarne lo sfruttamento coloniale del capitalismo settentrionale sulle masse rurali del Mezzogiorno e delle Isole9.

 

 

È a partire da questa grande delusione che prende le mosse la stagione delle lotte autonomistiche per il Piano di Rinascita. Nel 1949 Velio Spano, segretario e massimo dirigente sardo del PCI, chiese ed ottenne l’autorizzazione ad assentarsi dalla Sardegna per partecipare, insieme alla delegazione del Comitato Centrale, alle celebrazioni per la proclamazione della Repubblica popolare cinese che iniziarono il primo ottobre 1949. Nel periodo di assenza di Spano la segreteria regionale, della quale facevano parte Laconi e Lay, fu allargata con l’ingresso di Luigi Pirastu (allora Capogruppo in Consiglio Regionale) e la sua direzione venne affidata temporaneamente al partigiano emiliano Luigi Orlandi, mandato da Roma per aiutare nella costruzione del partito e per contribuire a riassorbire le tensioni accumulatesi.

Proprio in questa fase Laconi propose di incentrare l’iniziativa del PCI attorno alla rivendicazione del «Piano del Lavoro». L’idea avanzata da Laconi era che si facesse leva sull’articolo 13 dello Statuto autonomistico e sulle previsioni del piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna finanziato dallo Stato. Attorno a questa rivendicazione bisognava costruire un movimento di lotta di massa, unitario di tutte le forze democratiche, capace di coinvolgere contadini, pastori e tutti i lavoratori della Sardegna. Nell’intento di Laconi infatti il Piano per il Lavoro avrebbe dovuto essere il terreno concreto per la realizzazione dell’alleanza operai-contadini attraverso una profonda e radicale riforma agraria e un intervento infrastrutturale per l’uso razionale delle risorse idriche dell’isola. A tal fine venne convocato un primo congresso regionale promosso dalle camere del lavoro che si concluse con l’invito ai lavoratori, alle forze politiche e quelle culturali per l’organizzazione di un «Congresso del Popolo Sardo».

Quattro mesi dopo il Convegno organizzato dalle Camere del Lavoro di Cagliari, Sassari e Nuoro si teneva al Teatro Massimo di Cagliari il Congresso del popolo sardo, nel quale il tema di un Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna era affrontato come prima battaglia attuativa della Costituzione e dello Statuto. L’obiettivo era fare del Piano la bandiera autonomistica di tutto il popolo sardo, senza distinzioni ideologiche o di partito. Laconi era il relatore introduttivo.

Sul piano storico l’assenza di capitali da investire nella modernizzazione sociale ed economica era riconducibile al mancato formarsi in Sardegna di una classe borghese degna di questo nome. Le classi possidenti sarde, come quelle meridionali, avevano vissuto di rendita parassitaria spendendo quella rendita senza alcuna ricaduta produttiva e senza alimentare quote significative di risparmio. Da ciò l’evidente contrasto tra l’opulenza della nobiltà inurbata e la decadenza sia delle campagne che delle città. Una condizione che anche Gramsci aveva fotografato, seppur con differenze significative, nelle note di Americanismo e fordismo in rapporto alla struttura economico-sociale del napoletano10.

Neanche i tentativi tesi a stimolare l’iniziativa economica, attraverso la formazione di un capitale originario, come era avvenuto con la Legge delle chiudende o con la Legge Cocco Ortu, riuscirono a trasformare la natura della borghesia della Sardegna e con essa la sua società. L’unificazione totale del 1848 – che sopprimeva gli antichi istituti autonomistici del Regno di Sardegna uniformando l’Isola al resto dei domini piemontesi – veniva dopo una serie di provvedimenti legislativi tesi a integrare anche economicamente la Sardegna agli Stati continentali. In tal senso la legge delle chiudende del 20 e quella sulla proprietà perfetta del 36 erano finalizzate a distruggere il sistema feudale suscitando il formarsi una borghesia imprenditoriale di tipo europeo. Allo stesso scopo tendevano la liquidazione dei beni e dei diritti della Corona sulle risorse industriali e la creazione ad opera di Cavour di una Banca locale per mettere a frutto il risparmio. Da questo punto di vista l’unificazione totale e l’abolizione dell’autonomia rispondevano al tentativo di aprire la Sardegna ai capitali stranieri e inserire l’Isola nei flussi commerciali del tempo. Tuttavia questo tentativo era fallito perché la borghesia sarda non era riuscita a reggere il confronto con le profonde trasformazioni in atto. In una simile situazione non c’è stata alcuna modernizzazione ma solo l’accaparramento delle risorse da parte della borghesia forestiera che ha iniziato a commerciare i prodotti della Sardegna portando fuori da essa i profitti. Da questa debolezza delle sue classi dirigenti si originavano molti dei guasti che angustiavano la Sardegna sul piano sociale ed economico. Ne da conto lo stesso Antonio Gramsci in un articolo del 1919, falcidiato dalla censura, intitolato I dolori della Sardegna.

 

Perché deve essere proibito all’ «Avanti!» ricordare che a Torino hanno la sede i consigli di amministrazione delle ferrovie sarde e di qualche società mineraria sarda? (…) Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono pagati con salari da fame, mentre gli azionisti torinesi impugnano i loro portafogli con dividendi cristallizzati con il sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna vanno scalzi d’inverno e d’estate, perché il prezzo delle pelli è portato alle altezze proibitive dai dazi dei protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del cuoio, uno dei quali è presidente della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea, in quanto lo Stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale?11

 

Anche nel secondo dopoguerra poi, la riforma agraria Segni non aveva mutato la sostanza dei rapporti sociali nelle campagne e l’opera di bonifica procedeva con una lentezza e disorganicità che impedivano qualsiasi modernizzazione e resa produttiva dell’agricoltura sarda. La soluzione della questione agraria era la strada per far fronte al problema dello scarso popolamento della Sardegna. In tal senso il Piano sarebbe dovuto intervenire per porre fine alla concentrazione della proprietà fondiaria e alla contemporanea polverizzazione nella sua distribuzione. Bisognava costruire aziende agrarie moderne su superfici estese e con strutture sociali progredite avendo come prospettiva la riorganizzazione economica delle comunità. A questa trasformazione doveva concorrere l’opera di popolamento delle campagne attraverso la creazione di reti stradali, borgate rurali e case coloniche dando nuove possibilità di lavoro. Questo, insieme all’opera di bonifica che uno specifico ente regionale avrebbe dovuto assumere come attività sua propria, per far fronte ad una situazione non riscontrabile in nessuna altra regione d’Italia.

Senza entrare nel dettaglio della proposta avanzata basti qui richiamare alle articolazioni di intervento che si prospettavano per il piano: dalla riorganizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento a un nuovo piano di raccolta e distribuzione delle risorse idriche, da un piano energetico regionale alla riorganizzazione del credito regionale, dalla modernizzazione della trasformazione industriale al rilancio della struttura commerciale. La proposta di Piano doveva seguire una filosofia il più possibile integrata tra i settori d’investimento pubblico, avrebbe dovuto svolgere, verso l’economia e la società, quella funzione centralizzazione delle risorse per un comune obiettivo di sviluppo che era mancata in passato.

La battaglia per il Piano di rinascita durò tredici anni e andò costituendo in suo favore un grande movimento popolare che diede un contenuto nuovo ed avanzato alla vecchia rivendicazione autonomistica, evitando al contempo l’idea tradizionale del meridionalismo che concepiva lo sviluppo come un’opera unilaterale dello Stato centrale, attuata in via amministrativa dalle burocrazie regionali . L’idea del Piano di Rinascita si basava sull’esigenza di sfruttare a pieno le risorse della Regione, intesa non più come organo passivo di politiche elaborate a Roma, ma ente propositivo e protagonista capace di avanzare e realizzare politiche di programmazione economica e sviluppo. Una programmazione dal basso, capace di coinvolgere i cittadini e gli stessi Enti Locali.

In Sardegna la lotta autonomista per la programmazione democratica conferisce un contenuto nuovo alla vecchia ideologia autonomistica, rimasta concettualmente e politicamente separatista e sostanzialmente autarchica. L’idea di programmazione democratica legata al Piano di rinascita si basava sul rifiuto delle vecchie concezioni autonomiste secondo cui il Sud e le Isole lasciate libere di svilupparsi per conto proprio, senza i condizionamenti nazionali, avrebbero risolto da sole i propri problemi. Questa impostazione era ideologicamente liberista e si basava sulla rivendicazione per i punti franchi e conto i protezionismi doganali.

Ma la lotta per la rinascita rifiutava anche l’impostazione centralistica, burocratica e assistenziale del vecchio meridionalismo, secondo la quale lo sviluppo del Mezzogiorno poteva realizzarsi attraverso leggi speciali decise e finanziate da Roma e tese a interventi infrastrutturali. Dunque finanziamenti a pioggia – secondo il modello della Cassa straordinaria del Mezzogiorno – che oltre a perdersi nei mille rivoli del clientelismo politico e spesso delle reti malavitose, svuotavano di qualsiasi soggettività la Regione. Fin dal 1950 la proposta del Piano di rinascita postulava invece un forte mutamento di politica economica che ovviamente per potersi realizzare necessitava di armonizzarsi con quella nazionale. Così si prospettavano riforme di struttura come la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma agraria. Intorno a queste linee si sviluppò un movimento popolare che dopo tredici anni era riuscito a strappare un importante corpo di leggi articolato sul piano regionale e nazionale. Attraverso esse la regione non era relegata al ruolo passivo di destinataria di fondi (la cui entità e finalità è stabilita dallo Stato centrale), ma le viene riconosciuto il potere di partecipare alla contrattazione sugli investimenti pubblici in tutti i suoi aspetti preliminari ed attuativi.

Ma l’aspetto più avanzato, progressivo, del piano era che esso non si configurava come un intervento burocratico formulato da organi meramente tecnici. L’idea del piano era che esso avrebbe dovuto strutturarsi secondo un forte coinvolgimento democratico della Regione, degli Enti Locali, delle comunità. Queste erano le premesse, la concreta realtà politica e l’involuzione del quadro nazionale aveva impedito al piano di essere attuato secondo i suoi principi ispiratori. Al di là dei limiti nell’attuazione, gli effetti positivi del piano erano tutti nel movimento che intorno ad esso si era costituito e nel risveglio democratico che esso aveva suscitato presso municipi e comunità.

In concreto la stagione delle lotte per la Rinascita portò la Sardegna a compiere un indubbio balzo in avanti, anche se va detto per esteso che quel che si realizzò solo in minima parte corrispondeva alle proposizioni del Congresso del popolo sardo. Nelle intenzioni dei comunisti il piano di Rinascita doveva condurre ad una programmazione economica integrata capace di mutare i rapporti sociali di produzione, anzitutto nelle campagne, e sbloccare i meccanismi di accumulazione e distribuzione delle ricchezze. La risposta del Governo a guida democristiana si concentrò invece nella stagione, per molti versi effimera e dannosa, dell’industrializzazione forzata, attraverso la quale la gran parte delle risorse pubbliche vennero dirottate per favorire famiglie potenti come i Morati e i Rovelli e rinsaldare ulteriormente il blocco sociale tra classe politica e capitalismo parassitario del Nord Italia. Dunque una nuova stagione di colonizzazione che se da un lato ha fornito preziosi posti di lavoro, dall’altra ha portato fuori dall’Isola i profitti realizzati lasciando in loco solo il peso ingombrante e inquinante delle produzioni.

 

 

* * *

 

A tanti anni di distanza di quelle lotte resta anzitutto un’eredità che riaffiora carsicamente in diverse battaglie dei giorni nostri, (quella per la restituzione alla Sardegna di ciò che le spetta in termini di entrate fiscali; per la smilitarizzazione; per l’autogoverno del territorio in materia di tutela ambientale e modello si sviluppo; per trattenere e ridistribuire le ricchezze suscitate dal turismo di lusso che lasciano all’Isola solo le briciole dei lavoretti stagionali ecc., ecc.). Dopo la modifica del Titolo V e l’attribuzione alle Regioni ordinarie di potestà legislative analoghe a quelle delle Regioni a Statuto speciale, la realtà e le esigenze concrete impongono un lavoro di adeguamento e rilancio del nostro scheletro costituzionale. C’è un intero quadro di interventi, analisi, elaborazione e lotte che va riempito. Ancora una volta sull’autonomia si può trovare il terreno per ricondurre ad unità la trama frammentata della società sarda. Gli ostacoli a tale ricomposizione non vengono, oggi come in passato, solo da un dominio politico ed economico “forestiero”, ma trovano linfa e strumenti di contrasto proprio in parte significativa delle classi dirigenti sarde, in una borghesia abituata a vivere di rendite parassitarie e di un prestigio sociale che non merita.

 

1 A. Mattone, Velio Spano. Vita di un rivoluzionario di professione, Edizioni della Torre, Cagliari 1978, pag. 107.

2 Il PCS era animato da alcune figure di un certo rilievo nella storia del movimento socialista e comunista sardo, come l’Avvocato Antonio Cassitta che era stato direttore del giornale «Avanguardia», organo dell’organizzazione giovanile comunista. Nella FGCI Cassitta era stato membro della segreteria nazionale e delegato al III Congresso del Comintern. Oltre a lui altre figure importanti erano un altro avvocato, conosciuto per le sue doti di vecchio tribuno socialista, Antioco Mura di Bonorva, e Francesco Anfossi che in Argentina era stato tra i promotori della Lega sarda di Avellaneda.

3G. Lai (a cura di) La biblioteca di Renzo Laconi, Cuec, Cagliari 2000, pag. 59.

4 P. Cucchiarelli, A. Giannulli, Lo Stato parallelo. L’Italia oscura nei documenti e nelle relazioni della Commissione stragi. Gamberetti, Roma, 1997.

5 G. Lay, Io comunista, Tema, Cagliari, 2006, pag. 114.

6 Renzo Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi, scritti e discorsi, (1945-1967), EDES, Cagliari, 1988, pag. 225.

7 Ibid.

8 V. Spano, Per l’unità del popolo sardo. Edizioni della Torre, Cagliari 1978, pag. 79.

9 V. Spano, Contro il cretinismo paternalistico, Ivi, pag. 82.

10 Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. pag. 2143

11 Antonio Gramsci, I dolori della Sardegna, ed. piemontese dell’ «Avanti!», 16 aprile 1919. In Scritti 1915-1925, Moizzi Editore, Milano, 1976, pag. 177.

 

 

Moderati e democratici nel Risorgimento italiano: l’interpretazione di Gramsci

Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia

Convegno

RISORGIMENTO: STORIA E DIDATTICA

28-29 settembre 2006 oristano

 

 

Gianni Fresu

 

Moderati e democratici nel Risorgimento italiano: l’interpretazione di Gramsci

 

In sede storiografica il tema risorgimentale ha dato luogo ad una mole imponente di studi, convegni, pubblicazioni, che ha pochi paragoni con altre pagine della storia moderna e contemporanea italiana, ma soprattutto ha determinato letture profondamente diverse tra gli orientamenti filosofici e politici che, in vario modo e a vario titolo, si sono rapportati ad esso. Differenze, spesso palesatesi anche all’interno dello stesso campo ideologico, che divengono particolarmente acute in rapporto alla valutazione su funzione e incisività delle due componenti che, a varo titolo e modo, si pongono oggettivamente come le più rappresentative del liberalismo risorgimentale italiano: quella dei moderati e quella dei democratici. La dialettica tra queste due correnti storiche segna in particolare le riflessioni sul Risorgimento di Antonio Gramsci, che in esse legge il codice genetico della società politica italiana, così come cattura l’attenzione di tante altre firme di primissimo piano nella storiografia italiana ed internazionale tra Ottocento e Novecento.

 

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Per uno dei più importanti storici italiani del pensiero liberale come Guido de Ruggiero la prima considerazione da fare in ordine al liberalismo italiano è che esso ha una importanza modesta rispetto alle principali correnti storiche del movimento europeo, ponendosi in larga parte come un semplice riflesso di dottrine e indirizzi stranieri.

Opinione condivisa questa anche da Arturo Carlo Jemolo, il quale in più riprese sottolinea come il liberalismo moderno, fondato (pur nelle sue molteplici accezioni) sull’idea di uno Stato nazionale con un ordinamento costituzionale e un governo legittimato da una maggioranza parlamentare, non ebbe nel movimento intellettuale in Italia – almeno fino a Cavour – alcun grande teorizzatore. I suoi uomini, scrive Jemolo, furono piuttosto apostoli dell’idea, missionari o realizzatori1.

Le ragioni di questa limitata importanza sono riconducibili a fattori molteplici: il frazionamento politico che ha impedito la formazione di grandi correnti di opinione pubblica, segregando ogni sviluppo nell’angustia e nella rivalità di piccole fazioni regionali se non comunali; l’asservimento di tanta parte del territorio italiano a potenze straniere, che ha portato a concentrare le migliori energie nella lotta per l’emancipazione nazionale, ma anche alla confusione concettuale tra indipendenza e libertà; lo spirito della controriforma che aveva mortificato il sentimento individualistico premessa essenziale del liberalismo moderno; la natura letteraria e libresca di una cultura ridotta a «polverosa erudizione separata da tutti gli interessi vitali del presente»; ma soprattutto, l’arretratezza economica che ha ritardato il differenziamento sociale delle classi e la formazione di un largo ceto medio.