Abbiamo perso? Vuol dire che non ci hanno capito!

Abbiamo perso? Vuol dire che non ci hanno capito!

È veramente triste fare i conti con il mesto epilogo di un progetto nato con l’ambizione di rifondare una teoria e una prassi comunista nel Paese, dopo lo scioglimento traumatico del PCI. Di sconfitta in sconfitta, l’organizzazione incaricatasi di rappresentare la palingenesi del marxismo militante si è progressivamente ridimensionata, fino a divenire inutile, residuale, insignificante. Altro che l’erede del più grande partito comunista dell’Occidente, al massimo ci siamo ridotti a scimmiottare una delle tante organizzazioni della vecchia sinistra extraparlamentare, con una non trascurabile differenza: allora c’era anche il PCI, oggi no.
Negli ultimi anni siamo stati impegnati, più che a costruire il nostro progetto politico e dargli credibilità, a ragionare in termini di posizionamento rispetto agli altri: PD sì, PD no; governo sì, governo no. Potremmo evocare la Sindrome di Stoccolma per spiegare l’attuale stato d’animo del PRC e del PdCI, perché la sconfitta e la profonda crisi del Partito democratico ha anzitutto spiazzato chi in questi anni ha incessantemente incentrato la propria azione politica sulla critica feroce o l’appiattimento verso questo partito. Se non esistesse più il PD un buon 70% degli argomenti al centro delle nostre discussioni, negli ultimi anni, verrebbe meno. Panico: chi siamo, dove andiamo, come fare?
Fondare o affondare il proprio progetto sulla politica delle alleanze (alleati sempre e comunque oppure mai) è indice di subalternità politica: in entrambi i casi il soggetto non sono io, bensì l’altro, in ragione del quale, in un senso o nell’altro, configuro tutte le mie scelte di tattica e strategia.
Come in più di un’occasione mi è capitato di dire, l’idea della rifondazione comunista è stata sconfitta non dalla borghesia, dai poteri forti, dall’ipoteca moderata nel Paese del Vaticano. Il PRC ha fatto tutto, o quasi, da solo: anzitutto perseguendo una linea a zig zag, eclettica, per non dire schizofrenica, dove abbiamo detto tutto e il suo contrario; quindi anteponendo sempre il momento elettorale a tutto il resto. Prima vengono i progetti politici e poi le urne. Noi abbiamo preteso di invertire questi due termini, andando avanti con campagne estemporanee, tirando ogni volta fuori dal cilindro conigli pronti a essere sacrificati nelle urne.
Siamo finiti nel girone dantesco dei Comitati elettorali, anziché impegnarci con continuità e coraggio su un progetto politico di lungo periodo in grado di seminare, sedimentare e poi, magari, ottenere risultati. La fretta per le esigenze della scheda elettorale, rispetto alle quali non ci siamo mai sentiti pronti e adeguati, tanto da dover ogni volta inventare un simbolo e contenitore nuovo, la fregola di eleggere, o meglio di essere eletti, ci ha puntualmente fregato. Ogni volta, a pochi mesi dal voto, abbiamo tentato la “mossa del cavallo” inventandoci il cartello elettorale di turno, per poi abbandonarlo subito dopo. È accaduto alle politiche del 2008, con la Sinistra Arcobaleno, alle elezioni Euoropee, con la Lista comunista e anticapitalista, in queste ultime elezioni dove, nel breve volgere di pochi mesi, abbiamo bruciato ben due soggetti inventati all’occorrenza, Cambiere si può e Rivoluzione Civile, dopo aver archiviato una proposta di cui nessuno ha più nemmeno memoria, il «Fronte democratico».
Al’interno di questa autentica “Via crucis” l’unico tentativo dotato di un minimo di prospettiva era la Federazione della Sinistra, su cui però non abbiamo mai investito seriamente, azzoppandola sin da subito con assurde competizioni interne, sgambetti reciproci, rivalità e insensati personalismi tra i nostri “piccoli leader”, l’esigenza di tutelare i rispettivi orticelli di sovranità anche a scapito del progetto comune. Eppure, proprio la sua nascita, all’indomani delle europee, qualche speranza e un minimo di entusiasmo l’aveva suscitata, perché finalmente si tentava di invertire la tendenza decompositiva delle scissioni a sinistra e perché, finalmente, almeno PRC e PdCI sembravano decisi a costruire una casa comune. Come tanti altri, ci ho creduto e ho dedicato parte non trascurabile del mio tempo e delle mie risorse a tale prospettiva, salvo poi scoprire, a pochi mesi dalle elezioni, che ci eravamo sbagliati e non era più temo di federarsi a sinistra. Da una parte e dall’altra, la politica delle alleanze è stata posta al di sopra di tutto, compresa l’esistenza stessa del soggetto politico. In entrambi i casi (sia per chi bramava gli accordi con il PD, sia per chi li rifiutava a priori), la malattia era la medesima: istituzionalismo e smania di protagonismo. In entrambi è stato un fallimento politico occultato dallo “stato di necessità” della fase.
Per quattro anni, da Roma, i nostri dirigenti ci hanno martellato (riunioni, assemblee, chilometri in auto, treno aereo, ore al telefono, soldi buttati, giornate sottratte a lavoro e vita privata) per fare avanzare il nuovo contenitore federale della sinistra di classe, spingendoci a girare i paesi, convincere i compagni, litigare con chi non ne condivideva la prospettiva. Poi, di punto in bianco, ovviamente a cose fatte, e senza alcun mandato congressuale, quel contenitore è stato svuotato e gettato nel cestino, senza neanche tentare di spiegarci come sono andate le cose o dirci, “scusate, ci eravamo sbagliati”.
Penso ci sia stata poca onestà verso i dirigenti e i militanti nei territori, perché mentre si dava loro l’indicazione di costruire la Federazione, i vertici dei due partiti maggiori facevano tutt’altro, evitando risolutamente di trasformare un cartello elettorale in soggetto politico. In realtà ho come l’impressione che nessuno di loro volesse realmente o credesse sinceramente in quel progetto. A meno di un anno dall’ultimo Congresso del PRC e a un anno e mezzo da quello della Federazione, si è deciso di comune accordo di sciogliere l’organizzazione, per diverse valutazioni sulle elezioni primarie e sulle politiche delle alleanze. Ovviamente il mandato congressuale diceva ben altro, ma nessuno si è curato di avviare una seria e serena discussione sulle ragioni di quel naufragio, con relativa assunzione di responsabilità, anzi, gli stessi che hanno condotto il battello negli abissi si sono incaricati di imbarcarci tutti in una nuova “Galera” all’insegna del motto “Cambiare si può!”. Hanno talmente preso sul serio questa esortazione da interpretarla in maniera tale da non sentirsi in dovere di giustificare le ragioni del “cambiamento posssibile”, o di accennare anche la più timida autocritica.
Forse sarebbe bene rileggerci le note dedicate da Antonio Gramsci al Generale Cadorna, una figura a suo modo rappresentativa della mentalità delle classi dirigenti italiane e un emblema della contraddizione tra governanti e governati: in politica come in caserma, per i gruppi dirigenti, una volta individuata la direttiva essa va applicata con obbedienza, senza discutere, senza sentire l’esigenza di spiegarne la necessità e la razionalità. Il «cadornismo» consiste nella persuasione che una determinata cosa sarà fatta perché il dirigente la ritiene giusta e razionale, e per questa ragione viene affermata come dato di fatto indiscutibile. La differenza però è che Cadorna, dopo Caporetto è stato rimosso e sostituito, chi dirige il nostro partito, nonostante una lunga sequenza di sconfitte umilianti, è sempre al suo posto.
Anche adesso, dopo l’ennesima catastrofe elettorale che ha travolto le ambizioni di una “rivoluzione civile” in questo Paese, lascia esterrefatti la totale mancanza di senso di responsabilità. Non solo non si analizzano le ragioni della sconfitta – anzi vengono messe in fila una lunga serie di alibi (l’oscuramento mediatico, la scarsa verve carismatica di Ingroia, il voto utile ecc. ecc.) degni delle invasioni di cavallette del miglior John Belushi – la segreteria nazionale del PRC si è presentata al suo Comitato politico nazionale con delle dimissioni farlocche, per poi tornare rapidamente in sella tanto da annunciare un Congresso. Ovviamente non subito, perché tanto di tempo ne abbiamo molto e magari nel mentre ci scappa pure qualche altra tornata elettorale. Macché, rinviamo tutto a dicembre, con la speranza di trovare sotto il prossimo albero di natale le masse popolari allineate e pronte per essere guidate dall’ennesimo “rilancio della rifondazione comunista”.
Questo gruppo dirigente ha avuto cinque anni per tentare sia questa strada, sia quella della più ampia aggregazione a sinistra, raccogliendo soltanto sconfitte. Avevo detto in tempi non sospetti che avrebbero dovuto fare serenamente i conti con i fallimenti di cui si sono resi protagonisti e dimettersi. Non lo hanno fatto, né allora né oggi, lo faccio io per loro, da semplice iscritto però, dato che agli incarichi dirigenti avevo rinunciato molto tempo addietro. Dopo 22 anni passati dentro il PRC ho deciso, non certo a cuor leggero, di non rinnovare la mia tessera, vi ero entrato alla sua nascita (che poi, vista l’età, politicamente era anche la mia) e mai avevo pensato, neanche nei momenti più duri di distanza, quando prevalevano gli elementi di dissenso a quelli di condivisione, di fare un simile passo. Lo faccio ora, con grande travaglio personale, per non rendermi ulteriormente complice di una conduzione tanto scellerata e, soprattutto, per non sprecare più il mio tempo. Bisogna finirla di pensare che abbiamo perso non perché abbiamo sbagliato, ma perché gli elettori non ci hanno capito. Forse, al contario, abbiamo perso sonoramente perché, invece, loro hanno capito benissimo mentre noi ancora no.

La sinistra italiana dopo le elezoni politiche. «La Nuova Sardegna», sabato 2 marzo 2013


La sinistra italiana dopo le elezoni politiche.

«La Nuova Sardegna», sabato 2 marzo 2013
Di Gianni Fresu

Tra i tanti segnali contrastanti di questa tornata elettorale, uno chiaro e inequivocabile c’è: la pesante sconfitta della sinistra italiana. In una fase di profonda crisi del capitalismo, nel Paese dove esisteva il più grande partito comunista dell’Occidente, la sinistra non omologata al liberalismo si è ridotta ai minimi termini. Politiche contraddittorie, scissioni, liti furibonde, tante le ragioni possibili, una cosa è certa, il mondo del lavoro e quello del disagio sociale guardano altrove. Non è servito accantonare i suoi simboli storici e presentarsi con la lista guidata da Antonio Ingroia, il Movimento di Grillo ha monopolizzato il malcontento verso le politiche di austerità finanziaria. Probabilmente, l’assenza di un progetto politico e la tendenza a trovare forme di composizione episodica con dei cartelli elettorali hanno contribuito a questo risultato. Ciò è accaduto alle elezioni del 2008, con la Sinistra Arcobaleno, alle europee con la lista poi divenuta Federazione della sinistra, ora con l’esperimento di Rivoluzione civile. In tutti e tre i casi, la sinistra nata dallo scioglimento del PCI, sembra aver smarrito identità e strategia, tanto da tirare fuori dal cilindro un coniglio nuovo ogni volta, con l’approssimarsi delle scadenze elettorali. Un tempo si diceva, prima i progetti politici poi le urne, in questi ultimi anni è però avvenuto l’esatto contrario e all’azione permanente dei partiti si è progressivamente sostituita quella occasionale dei comitati elettorali. Se Atene piange, Sparta non ride, e anche Sinistra e Libertà, a fronte di una ben maggiore esposizione mediatica, amplificata dalla campagna per le primarie, e disponibilità di risorse senza l’alleanza con il PD non avrebbe potuto eleggere propri rappresentanti in Parlamento. Se nel 2006 questi partiti esprimevano quasi il 15% dei voti, ora a stento si avvicinano al 6. Non servono ragionamenti troppo sofisticati per suggerire alle forze di questo campo di voltare finalmente pagina e dar corso a una nuova fase costituente, per un progetto unitario e credibile, almeno che non si vogliano lasciare battaglie e quel che resta del vecchio consenso nella società al Movimento di Beppe Grillo. Nei mesi precedenti al voto non sono mancate le polemiche e, in più di un caso, si sono levate voci che invocavano l’azzeramento non solo di organismi dirigenti, ma anche delle stesse organizzazioni della sinistra. L’invito non è stato accolto, si è preferito ripercorrere le strade già battute, mantenendo ben in sella gli stessi gruppi dirigenti protagonisti e responsabili delle sconfitte precedenti. Oggi il tempo dei bilanci non potrà essere nuovamente rinviato, così come quel cambio di gruppi dirigenti necessario ad aprire una fase nuova a sinistra. L’azzeramento sembra essere stato decretato dagli elettori. Del resto non si è mai visto un esercito guidato dagli stessi generali reduci da cocenti sconfitte militari e non si capisce perché questa regola non dovrebbe valere in politica, tanto più in un’area con ambizioni progressiste. C’è un intero campo da ricostruire, a partire però non dalle esigenze elettorali, bensì dai suoi contenuti economici, dalla sua ragion d’essere sociale. Nella realtà sono presenti tutti gli elementi su cui articolare un simile progetto a partire dalla scelta di campo rispetto al conflitto, oggi più che mai vivo, tra capitale e lavoro, ai temi dell’accumulazione e ripartizione delle ricchezze prodotte, della precarietà distruttiva imposta al mercato del lavoro dalle politiche liberiste del decennio passato, vere responsabili della crisi da cui stentiamo a uscire. Una ricomposizione di questo tipo potrebbe finalmente mutare i rapporti anche con il Partito democratico, andando oltre l’alternativa, comunque perdente, tra subalternità e isolamento minoritario.

Gramsci ridotto a una banale storia di spie. «La Nuova Sardegna», Cultura e Società, domenica 24-2-2013

Gramsci ridotto a una banale storia di spie.

Recensione del libro di Franco Lo Piparo, L’enigma del quaderno, Donzelli, 2013.

«La Nuova Sardegna», Cultura e Società, domenica 24-2-2013

Di Gianni Fresu

È oramai appurato, in Italia esiste una categoria di studiosi specializzati in indagini sulla presunta conversione politica, quando non anche religiosa, di Antonio Gramsci ai paradigmi del liberalismo. È il caso dell’ultima fatica di Franco Lo Piparo, incentrata sulla misteriosa sparizione di un quaderno del carcere. Lo Piparo emette un trittico di sentenze inappellabili su ragioni e responsabili della scomparsa: manca un quaderno; l’ha fatto sparire Togliatti; in esso Gramsci ripudia il comunismo e il suo partito. Non si tratta di un saggio storico, ma di una vera e propria spy story per la cui redazione l’autore afferma di essere ricorso a una «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro volta ancorate a fatti reali». Ho letto tutte le 140 pagine, più appendice, ma francamente di fatti reali non ne ho trovati, in compenso ho riscontrato molta fantasia, associata a un ferreo pregiudizio di condanna che a mio modesto parere ha anticipato e guidato, non seguito, l’indagine.

Tutte le contraddizioni sul numero dei Quaderni, relative a documenti e testimonianze discordanti, assai plausibili tenuto conto della clandestinità sotto il fascismo e poi dalla disorganizzazione seguita alla guerra, sono qui utilizzate come prova di un reato per il quale esistono però solo indizi. L’intero lavoro si basa sull’interpretazione “creativa” di lettere e documenti: in alcuni casi si cerca un significato recondito ed equivoco ad affermazioni fin troppo evidenti, in altri, magari rispetto a lettere scritte con linguaggio cifrato, per ovvie ragioni di sicurezza, si da un’interpretazione certa e univoca. Paradossalmente anche l’assenza dei documenti necessari a fondare le tesi dell’autore sono utilizzate come prova della sua sentenza. La struttura logica del ragionamento è la stessa: se questi documenti non si trovano sono stati distrutti, dunque c’era qualcosa da nascondere, il responsabile è Palmiro. A dominare tutte le valutazioni sulle “stranezze” ci sarebbe la malafede del gruppo dirigente comunista e soprattutto di Togliatti, regista di tutti i depistaggi orditi con la complicità di moglie, cognata e amico strettissimo (Piero Sraffa) del povero Gramsci, tutti agenti del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo. Le contraddizioni però non mancano. Secondo l’autore, Sraffa e Tania avrebbero giocato una «partita a scacchi»: il primo «per venire in possesso dei quaderni prima che altri potessero leggerli e sfruttarne l’eventuale carica politica»; la seconda invece per «onorare l’impegno preso col cognato di fare pervenire i quaderni alla moglie per evitare qualsiasi perdita o intromissione di chicchessia». Anche quest’affermazione di Lo Piparo è assai strana. Se Tania era, come lui afferma, un agente segreto sovietico messo da Stalin alle calcagna di Gramsci per controllarlo, perché sarebbe stata interessata a «onorare l’impegno con il cognato» e non quello con i suoi superiori gerarchici di cui Sraffa sarebbe stato emissario? Eppure, in altre parti del libro, Lo Piparo non ha nessun dubbio su questo ruolo e arriva a scrivere: «Tania lavora nei servizi sovietici e non può non essere stata addestrata al lavoro di intelligence».

Anche ammettendo l’assenza di un quaderno, per quale ragione Gramsci avrebbe dovuto concentrare in esso tutte le sue critiche al comunismo – ipotesi contraddittoria rispetto alla struttura dell’opera e al metodo di lavoro da lui usato – mentre nel resto dei Quaderni nulla di tutto questo è rintracciabile, anzi vale l’esatto contrario? Secondo l’autore il quaderno mancante all’appello fu scritto nella clinica dopo la scarcerazione, ne è tanto convinto da affermare: «Sraffa, Gramsci vivo, sarà stato a conoscenza [del Quaderno] perché dei suoi contenuti i due amici avranno discusso nei colloqui dell’ultimo anno». Anche in questo caso non si comprende in base a quali documenti l’autore possa essere giunto a una tanto perentoria conclusione. Ecco un’altra affermazione contraddittoria di Lo Piparo: «È credibile un Gramsci che, fuori dal carcere e senza esplicite costrizioni censorie, non abbia sentito il bisogno di mettere per iscritto le sue riflessioni e deduzioni teoriche su quanto l’amico Piero gli andava raccontando degli sviluppi del comunismo?» Verrebbe da pensare che in carcere Gramsci non potesse scrivere criticamente del comunismo a causa della polizia fascista, mentre in clinica avrebbe avuto maggiore libertà. Forse Mussolini era sullo stesso fronte della barricata con Togliatti e Stalin per impedire a Gramsci di parlar male del comunismo? A suo dire, Togliatti, grazie alla «catena comunicativa» di Tania e Sraffa, sapeva della disistima nei suoi confronti di Gramsci, perché lo avrebbe ritenuto responsabile della famosa lettera di Grieco e delle «intempestive» campagne internazionali di stampa in suo sostegno. Anche in questo caso l’autore si guarda bene dal provare le sue affermazioni, limitandosi a dire «Togliatti era stato escluso dalla cura dei Quaderni». In realtà Gramsci, in carcere, aveva interrotto qualsiasi comunicazione diretta con i quadri del partito e del Comintern per non apparire più un dirigente comunista in attività e con alte responsabilità, per questo ritenne inopportuna la lettera di Grieco. L’accusa principale sarebbe riconducibile a un dissidio insanabile tra Gramsci e Togliatti rispetto alla linea assunta dal Comintern con il socialfascismo e all’«appiattimento» del partito italiano. In realtà l’autore dimostra di aver visionato le etichette dei Quaderni e studiato le incongruenze sulla loro numerazione, ma si è guardato bene dallo studiare dinamiche e storia del comunismo italiano e Internazionale. Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto ad esempio che l’appiattimento in realtà non era tale, e anche quando, dopo interventi pesantissimi da Mosca, si determinò il suo allineamento, ciò fu dovuto all’impossibilità di rompere i rapporti in una fase drammatica, con tutto il suo gruppo dirigente (compreso il capo) in carcere, il trionfo interno e internazionale della dittatura fascista, l’esilio dei superstiti. Quando, al VI Congresso del Comintern del 1928, fu adottata la linea del «socialfascismo» (criticata da Gramsci) e Bucharin venne liquidato per la sua opposizione, proprio Togliatti fu l’unico membro dell’Esecutivo a intervenire, nel gelo e nel silenzio più assoluto, gli tolsero addirittura la parola, in sostegno alla sua relazione. Nell’altrettanto famoso VII Congresso del luglio 1935, che portò alla condanna del socialfascismo e spianò la strada alla politica dei «Fronti popolari» (ossia la linea di Gramsci) proprio Togliatti, insieme a Dimitrov, fu il protagonista della svolta, anticipando una posizione poi perseguita con continuità fino al ritorno a Salerno nel ‘44. Tutte cose di cui uno studioso dovrebbe tener conto, nemmeno sfiorate da Lo Piparo, affaccendato com’è a cercare vanamente il corpo del reato. Sicuramente, questa la mia conclusione, egli trova tanto fumo ma nessuna pistola.

 

 

 

 

 

 

Anche a sinistra nella politica domina l’immagine (La Nuova Sardegna,21 ottobre 2012)

È evidente a tutti la profonda crisi del sistema politico italiano e dei suoi partiti, eppure non stiamo parlando di “partiti storici”, bensì di organizzazioni nate recentemente, al massimo venti anni fa. Paradossalmente l’Italia ha insieme il sistema di partiti più giovane e maggiormente in crisi tra le nazioni europee, dove invece sono in campo organizzazioni storiche che affondano le loro radici non solo nel tanto detestato Novecento (il cosiddetto “secolo delle ideologie”), ma persino nell’Ottocento. I vecchi partiti (socialdemocratici, cristiano-democratici, liberali, conservatori o della sinistra di classe) di Paesi come Francia, Germania, Inghilterra, Austria, Spagna, Portogallo, continuano a rinnovare le rispettive classi dirigenti, senza per questo fondare nuove organizzazioni a ogni sussulto storico, e hanno uno stato di salute ben maggiore dei giovani ma acciaccati partiti nostrani. Tuttavia questo non è il solo paradosso italiano. In questi mesi in tanti celebrano la fine del berlusconismo, inteso come forma moderna di populismo conservatore, imperniato sull’abile uso della comunicazione di massa, l’adozione spregiudicata di parole d’ordine accattivanti sul piano mediatico, l’idea dell’uomo solo al comando («ghe pensi mi!») capace di risolvere,  grazie a doti individuali e storia personale, tutti i problemi che affliggono i cittadini. A guardare bene, se anche fosse vera la fine politica di Silvio Berlusconi, dovremmo comunque parlare di una vittoria postuma del berlusconismo, e non solo nel suo campo politico. Questo discorso vale almeno per due aspetti: la spettacolarizzazione mediatica della politica; la personalizzazione carismatica del messaggio politico. Sul primo non ho modo di soffermarmi per ragioni di spazio, ma basta guardare lo scenario attuale (traversate a nuoto dello stretto di Messina, monologhi con piglio da telepredicatore del sindaco che sta attraversando l’Italia in camper per portare il verbo della “gioventù al potere”, autonarrazioni familiari nelle quali dovrebbero riconoscersi gli italiani, a fianco di una pompa di benzina, e via dicendo) per vedere come il fenomeno non possa più essere circoscritto solo al campo del centro destra. Sul secondo, invece, la “berlusconizzazione” della politica italiana è evidente in primo luogo per un fatto: oggi la gran parte dei partiti politici italiani reca o ha portato nei rispettivi simboli il nome del proprio leader.  Ma la manifestazione più plateale di questa vittoria postuma viene dalle modalità con cui si sta conducendo la campagna per le primarie, dalle quali sta emergendo una insopprimibile, e insopportabile, tendenza al “culto della personalità” dei diversi candidati. Questa incarnazione nominalistica di una linea nella figura e nella biografia personale del leader, è un carattere di semplificazione del messaggio politico tipicamente berlusconiano, sulla cui efficacia è legittimo nutrire più di un dubbio. Se si pensa di risolvere il problema del rapporto di rappresentanza con forme attualizzate di cesarismo, evidentemente, non si è compresa o non si conosce la lezione della storia e ben poco si è capito dell’attuale crisi. La politica, se realmente vuole ricomporre la frattura tra rappresentati e rappresentanti, deve ricostruire questo rapporto su altre basi, realmente collegiali, piuttosto che assegnare deleghe passive al demiurgo di turno. Personalmente alla politica in mano ai capi carismatici preferisco l’idea dell’intellettuale collettivo, nella convinzione che le due cose non sono solo diverse, ma incompatibili. Possiamo discurere a lungo sull’attualità o inattualità di un pensatore come Gramsci, ma siamo realmente convinti che quanto abbiamo sotto gli occhi in questi giorni sia il tanto invocato rinnovamento, la risposta “nuova” alla cosiddetta crisi della politica?

Un’isola in ostaggio.

Un’isola in ostaggio.

La trattativa Stato-mafia come pratica organica e permanente di autodifesa nella storia repubblicana.

Rileggendo le pagine più oscure della storia italiana nella seconda metà del Novecento, emerge come la Sicilia, tra strategia della tensione, Mafia, servizi segreti, si situi al centro di trame di cui è possibile comprendere il senso storico senza però conoscerne completamente la verità processuale. Oggi quelle pagine tornano di attualità, per l’inquietante coinvolgimento dei massimi vertici dello Stato in una trattativa scellerata con la mafia nel vivo della sua più efferata azione stragista. Più in generale, esiste un problema di verità storica e processuale, che riguarda il ruolo di apparati dello Stato e di servizi stranieri, in un arco temporale assai più ampio. Come oramai è noto a tutti, l’attività invasiva dei servizi segreti americani sul territorio italiano è nata con lo sbarco in Sicilia del 1943. Qui si ha anche l’inizio vero e proprio della strategia della tensione con la strage di Portella della Ginestra. L’antefatto della strage del primo maggio 1947 risiede nelle elezioni del 20 aprile per l’Assemblea regionale, segnate da un inaspettato successo del Blocco del popolo – (PCI, PSI, Partito d’Azione), passato dal 21% del 2 giugno 1946 al 30,4% – un arretramento della DC, che perse quasi il 13% dei voti, e il ridimensionamento di Monarchici, Uomo Qualunque e Movimento per l’indipendenza della Sicilia, vale a dire, le forze dietro cui si concentravano i gruppi di latifondisti e possidenti decisi a bloccare la strada a qualsiasi ipotesi di mutamento nei rapporti sociali delle campagne. Un risultato che s’inseriva in un generale processo di crescita politica e sindacale delle masse contadine siciliane, sfociato nelle occupazioni delle terre incolte e nel movimento rivendicativo per la riforma agraria. La manifestazione del primo maggio, con il comizio sul «sasso sacro in memoria di Nicola Barbato», riprendeva una tradizione le cui origini risalivano al movimento dei fasci siciliani, una festa popolare, e quell’anno assumeva un significato del tutto nuovo e particolare. Gli undici morti e cinquantasei feriti lasciati sul terreno erano il primo emblematico atto della guerra mossa ai movimenti di rivendicazione sociale in Italia nel dopoguerra. Questo episodio conteneva già gran parte delle chiavi utili a comprendere i successivi cinquant’anni di violenze e stragi impunite, con tutto il loro carico di complicità e coperture, provenienti dalle forze di sicurezza dello Stato italiano e degli USA. Una strage annunciata, preceduta dagli omicidi dei sindacalisti a Ficarazza, Partinico e Sciacca. Per uno strano gioco del destino, sempre in Sicilia sembra terminare, o forse intraprendere altri percorsi, la storia della rete operativa Gladio. Tra le tante anomale articolazioni di Gladio, che meriterebbero attenzione e ulteriori approfondimenti – specie ora che riemerge con consistenza l’ombra inquietante dei servizi segreti sulla strage del giudice Borsellino e della sua scorta – c’è sicuramente il Centro Scorpione istituito dalla struttura di Gladio a Trapani nel 1987, proprio nel periodo in cui si celebrava il Maxiprocesso alla mafia (sviluppatosi tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987). Le anomalie mai chiarite di questo centro sono molteplici, tuttavia, nel periodo e nel territorio in cui operò il Centro Scorpione vi furono alcuni omicidi eccellenti ed emblematici insieme: Giuseppe Insalacco (per tre mesi sindaco di Palermo nel 1984), protagonista di clamorose denunce delle collusioni tra mafia e politica, ascoltato anche dalla Commissione antimafia. Insalacco fu ucciso insieme al suo autista il 12 gennaio 1988. Dopo la morte fu trovato un suo memoriale in cui accusava diversi esponenti della DC palermitana, per la commistione con la mafia nel sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino; il giudice Antonio Saetta, impegnato in numerosi processi alla mafia. Saetta in particolare si trovò a presiedere il processo a Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonna, per l’uccisione al capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Il processo, conclusosi in primo grado con una sorprendente e molto discussa assoluzione, decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati. Pochi mesi dopo questa sentenza, il 25 settembre 1988, il Giudice Antonio Saetta e il figlio Stefano vennero assassinati; Giovanni Bontate – fratello del boss Stefano, secondo i collaboratori di giustizia molto vicino ai vertici nazionali e regionali della DC, assassinato nel 1981 – coinvolto nel maxiprocesso e ucciso insieme alla moglie il 28 settembre 1988; Mauro Rostagno, impegnato nella lotta per il recupero dei tossicodipendenti in Sicilia e in prima linea nel denunciare gli intrecci tra mafia e politica, ucciso il 26 settembre del 1988. Ora, anche senza lasciarsi andare a troppe congetture, è quantomeno singolare che una struttura d’intelligencedotata di mezzi (persino un aereo e una pista d’atterraggio a propria disposizione), operante in quel territorio, non fosse stata in grado di reperire informazioni utili prima e dopo i diversi omicidi. Nella struttura peraltro operava un agente di spicco come Vincenzo Li Causi, coinvolto in diverse vicende poco chiare e dai profili decisamente illegali. Permangono insomma ampie zone d’ombra sulle effettive funzioni di questo centro operativo in una zona e in un periodo caldi, densi di avvenimenti drammatici. Dalla lettura degli atti sorgono spontanee quattro domande che ora, in una fase nella quale si discute con meno pudore della trattativa Stato-Mafia, sarebbe il caso di affrontare: la storia di Gladio, con la fine della guerra fredda, può dirsi realmente conclusa o semplicemente essa si è trasformata in altro? Può essere che la vicenda ad anello delle trame oscure in Italia in realtà non sia tale? Può essere che in Sicilia essa abbia avuto un primo ed un secondo inizio – conseguente al mutare dello scenario internazionale – piuttosto che un inizio ed una fine come in tanti hanno affermato? La storia italiana del dopoguerra è stata spesso interpretata con la chiave di lettura della «democrazia bloccata», in gran parte dei casi, ricondotta esclusivamente ai condizionamenti imposti dal fronteggiarsi sul piano internazionale dei due blocchi contrapposti. Se tutto questo trova puntuale conferma sul piano storico, non è comunque sufficiente a spiegare i limiti di funzionzmrnto democratico del Paese. Le pagine più oscure della «guerra a bassa intensità» combattute in Italia nell’epoca della guerra fredda avevano un concorso di cause solo in parte riconducibili a Roma, tuttavia, anche se si accettasse integralmente questa ipotesi, ciò chiamerebbe comunque in causa una debolezza congenita delle classi dirigenti italiane incapaci di resistere a sollecitazioni esterne di tale gravità. Una cosa è certa, l’utilizzo da parte dello Stato degli strumenti coercitivi legali e illegali e la pianificazione della strategia della tensione, per la difesa dello stato di cose esistenti, sono il segno evidente di un deficit di egemonia delle classi dirigenti in Italia.  La trattativa Stato-mafia non può certo essere circoscritta alla stagione stragista dei primi anni Novanta. Come è oramai appurata la sinergia tra apparati dello Stato ed eversione neofascista per difendere gli equilibri politico sociali, consolidatisi a partire dalle elezioni del 1948, così il rapporto con organizzazioni malavitose come la mafia è un dato organico della storia di questo Paese, specie nelle sue fasi di crisi. Come altre volte in passato, la magistratura ha iniziato a fare chiarezza su certe inconfessabili modalità, del tutto antidemocratiche, di autodifesa del potere politico in questo Paese. Chiarite le verita processuali, speriamo, su questo dovranno interrogarsi gli storici in  futuro, indagando senza blocchi e autocensure le storie individuali e collettive delle classi dirigenti italiane con tutte le loro contraddizioni. Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia sarebbe potuta essere un’occasione propizia per iniziare a farlo, purtroppo, in gran parte, si è preferita strada dell’agiografia, la rappresentazione retorica e oleografica di un grande album di famiglia nel quale tutti gli italiani avrebbero dovuto riconoscersi.

 

Gianni Fresu

“L’autista aveva gli occhi chiusi”

“L’autista aveva gli occhi chiusi”
(In risposta all’articolo I miracolati della corriera, di Rosangela Erittu, “L’Unione Sarda” del domenica 29 luglio 2012, pagina 37)

Mi chiamo Gianni (all’anagrafe Giovanni) Fresu, come mio padre, autista delle autolinee Satas, in tempi nei quali guidare “su postale” non era proprio la migliore delle occupazioni possibili: stipendi bassi, eufemismo per non dire da fame, ritmi di lavoro e turni massacranti, mezzi cui spesso era negata o limitata al minimo la manutenzione. Un’azienda privata perennemente in crisi, le cui prospettive fosche si accompagnavano a fasi nelle quali, con il futuro, era incerto anche il presente delle retribuzioni in arretrato. Bisognava porre fine a quella condizione, i lavoratori della Satas iniziarono una vertenza durissima per l’acquisizione pubblica dell’azienda e dei relativi servizi di trasporto: scioperi, agitazioni, la lunga occupazione della stazione autolinee di Cagliari, mesi e mesi di stipendi, già di per sé magri, in fumo, debiti insostenibili contratti dalle famiglie per far fronte all’emergenza, tra queste anche la mia. Passata la nottata, vinta la battaglia (il 9 giugno del 1970 fu istituita con legge regionale l’ARST) per i lavoratori Satas tornò il tempo del lavoro in una fase di transizione dal vecchio al nuovo comunque non ancora priva d’incognite, nella quale autisti, bigliettai e operai della ex Satas si trovarono costretti a lavorare senza sosta per recuperare quel reddito perso nei tanti mesi senza salario, in un contesto confusionario nel quale potevi essere chiamato in servizio senza alcun preavviso, buttato giù dal letto e messo su vetture spesso con i freni, e non solo, in disordine. Non a caso in quel periodo si moltiplicarono gli incidenti che vedevano coinvolte le linee ex Satas. Acadde così il quattro giugno 1972. Mio padre non doveva lavorare, anzi quel giorno avrebbe dovuto assistere al provino per il “Cagliari calcio” del suo figlio maschio più grande, 10 anni. Un giorno atteso da mesi, una gioia per entrambi, che li spinse la sera prima a fare le prove di dribling con le bottiglie disposte nell’andito di casa. Poi una chiamata improvvisa, bisogna sostituire un collega, presa di servizio la mattina presto per la tratta che da Cagliari conduceva per le tortuose strade dell’Ogliastra e addio ai sogni da coltivare a bordo campo, il piccolo Diego farà il provino da solo, senza il conforto e lo sguardo rassicurante del babbo, come per tutto il resto della sua vita dovrà abituarsi a fare lui, le due sorelle, i due fratelli, la mamma. Era una mattinata caldissima, soffocante, e la corriera con venticinque persone a bordo, tra un tornante e l’altro, terminò la sua corsa in una scarpata di Talana, dieci le vittime. Scrivo queste cose non perché voglio tediare con le vicende personali della mia famiglia, ma perché sono rimasto quanto meno amareggiato nel leggere l’articolo I miracolati della corriera, (“L’Unione Sarda” del 29 luglio 2012, pagina 37) dedicato a quell’evento tragico attraverso la testimonianza dei superstiti. Sì perché tutto quel che si può leggere di quell’evento è una frase di questo tenore: «prima che il pullman precipitasse l’autista aveva gli occhi chiusi». Nient’altro, nessuma precisazione, quasi che mio padre avesse gli occhi chiusi perché stesse dormendo, fosse ubriaco o chissà cosa. No, non andò così, mio padre, come tanti suoi colleghi, costretto a non rifiutare turni pesantissimi e straordinari, non era ubriaco, non stava dormendo. Prima del volo ebbe un malore e fu colto, come anche l’autopsia chiarì, da infarto alla guida del mezzo, su una strada infame, abbandonata, come lo è oggi, al suo destino sotto il sole di una caldissima giornata di giugno. A rendere ancora più triste il tutto, l’elicottero che lo trasportò in fin di vita atterrò proprio nel campo di calcio Coni, sede del provino del piccolo Diego. Giovanni Fresu morì dopo quattro giorni di agonia in stato comatoso, non aveva ancora compiuto 37 anni, aveva una moglie e quattro figli piccoli, io sono nato due mesi dopo. Con lui morirono il suo collega Bruno Corso e i passeggeri che ebbero la sventura di salire, come ogni giorno, su quella maledetta corriera. Come tutti gli incidenti sul lavoro, anche quello di mio padre, non fu una fatalità e nemmeno un evento causato da suo dolo o comportamento scorretto. Ci tenevo a precisare questi fatti non perché mi aspettassi di vedere “nero su bianco” i retroscena di quanto accadde (in casa nostra abbiamo ancora conservati tutti gli articoli usciti in quei giorni su “L’Unione sarda”, “L’Unità”, “Famiglia cristiana”) ma per ristabilire una verità storica, offuscata o resa poco comprensibile da una frase lapidaria, il cui significato può essere interpretato in qualsiasi modo. Per noi quel volo, giù per il burrone, non si è mai concluso, quasi a non voler sentire il frastuono dello schianto, quasi a non voler vedere la ferraglia contorta e tutto quel che essa conteneva. Da quel giorno abbiamo vissuto sospesi in attesa della fine del servizio, del suo rientro a casa da lavoro, e a volte bastano poche parole per farci ritornare tutto in mente. Sia chiaro, nessuna malafede, ma forse, quando si ha a che fare con le ferite mai ricucite e i drammi di famiglie come la mia, non una sagra o un banale fatterello di cronaca, un giornalista dovrebbe evitare le approssimazioni e magari approfondire meglio ciò di cui intende scrivere.
Cordiali saluti
Gianni Fresu, figlio di Giovanni Fresu.

Eutanasia delle cattive abitudini. Andare oltre l’esistente, per una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti.

Eutanasia delle cattive abitudini.

Andare oltre l’esistente, per una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti.
G. Fresu

La storia è segnata da fasi lunghe e rettilinee, contraddistinte da una certa uniformità, e da improvvisi tornanti, sovente premessa di radicali cambiamenti nei modi di produzione, negli assetti delle relazioni sociali e politiche. Il senso progressivo o regressivo di queste svolte non è inscritto deterministicamente nelle leggi dell’economia, nei processi di evoluzione sociale e, meno che mai, nel destino ineluttabile dell’umanità. Come il primo, vittorioso, assalto al cielo nella storia del Novecento sta a dimostrare, le contraddizioni oggettive dell’attualità possono dar luogo a grandi salti storici se, sul piano soggettivo, esistono realtà sociali e politiche capaci non solo di leggere il presente, bensì dare una prospettiva alle grandi masse popolari, facendole irrompere nella scena politica. Mi è già capitato di dirlo, in assenza di ciò, in fasi di crisi organica come questa, sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione. Le crisi organiche sono generalmente dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le “riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Oggi siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionale dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni. La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro. Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive: a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale, la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile, capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Nonostante la presenza simultanea di questi fattori, a tutt’oggi, manca un soggetto politico in grado di incarnare questa enorme esigenza di protagonismo sociale delle classi subalterne. Bisogna fare un’analisi disincantata, franca e senza indulgenze: quel soggetto non è e non può essere la Federazione della sinistra, né, tanto meno, i singoli partiti che la compongono. La Federazione è nata all’interno di un lungo processo dialettico nella sinistra, con la felice ambizione di porre fine alle lacerazioni e al processo inesauribile di scissioni, più o meno significative. A questo processo dialettico, però, è mancato il salto decisivo, il mutamento dalla mera quantità, puramente sommatoria, alla qualità nella natura dei rapporti federativi. L’infinita transizione verso il nuovo soggetto si è trasformata in una stasi paludosa, capace di mortificare l’entusiasmo di qualsiasi spinta volontaristica all’impegno militante. Tra rallentamenti, fughe in avanti e ripiegamenti repentini, nei fatti, non siamo stati capaci di trasformare il Progetto della Federazione della Sinistra in un soggetto organico con strutture dirigenti, intermedie e di base, e una proposta politica sottoposta a verifica democratica. Abbiamo preferito una costante mediazione su tutto, la ricerca dell’unanimismo, con il risultato di minarne la credibilità, la capacità attrattiva e, in ultima analisi, la tenuta elettorale. A partire dalla presentazione della lista comunista e anticapitalista alle ultime elezioni europee, il progetto della Federazione della Sinistra ha suscitato diverse speranze e molteplici aspettative, via via deluse dal prevalere di logiche che si speravano superate. Il congresso della Federazione, in realtà poco più di un attivo nazionale dei quadri, è stata un’occasione mancata, perché la scelta di determinare organismi dirigenti pletorici, sulla base di quote predeterminate, senza vagliarne il peso a tutti i livelli con congressi veri, ha impedito di risolvere il problema prioritario che la Federazione vive a livello nazionale e locale: la sovranità e l’effettiva capacità decisionale degli organismi federativi rispetto ai soggetti fondatori; la capacità di operare delle scelte politiche andando oltre la drammatica alternativa tra unanimismo e separazione. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, allo stato attuale, la Federazione è poco più di un cartello elettorale, perennemente impastoiato in micro conflitti interni. Tra i soggetti fondatori, rispetto alla reciproca lealtà e alla solidarietà attiva, hanno finito per prevalere deteriori mire egemoniche e controegemoniche. Se il Congresso (non congresso) della FdS è stata un’occasione mancata, i due recenti congressi nazionali di PRC e PdCI, ognuno, a suo modo, autoreferenzialmente ripiegato su sé stesso, sono la logica traduzione di quel fallimento. Il 2010-’12 sarebbe dovuto essere il triennio della svolta e non solo non lo è stato, nonostante il contesto oggettivo di crisi del capitalismo, ma ha rappresentato una fase di ulteriore ripiegamento. Alla Federazione è mancata con una strategia la solidarietà tra i soggetti fondatori, e così il criterio ispiratore del suo agire ha finito per essere una sorta di pilatesca “mano invisibile”: non potendo fare di meglio, ci siamo limitiati a lasciare campo alle libere fluttuazioni tra i soggetti fondatori, nell’assurda speranza che la competizione internatra PRC e PdCI potesse essere tutto sommato positiva. Oggi la Federazione non ha forza attrattiva, non è capace di raccogliere il voto di protesta, né quello alla cui base sta una coerente visione del mondo, così come non riesce a essere elemento catalizzatore del profondo malessere nella costruzione di una seria opposizione sociale. Esistono al di fuori di noi tantissimi soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica potenzialmente interessati a un progetto di classe. Sono tanti gli italiani che non trovano seducente né la permanente vocazione al compromesso privo di riferimenti sociali del PD, né le allucinazioni carismatiche di una sinistra senza aggettivi, edificata per cooptazione attorno alle narrazioni immaginifiche del suo leader. Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare, poi, nella Federazione un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione. Personalmente ho creduto profondamente alla nostra aspirazione federativa e ho ritenuto i partiti fondatori un valore aggiunto di questa processualità. Oggi non la penso più allo stesso modo, al contrario, ritengo un ostacolo, alla ricomposizione di un quadro sociale più avanzato, la persistenza delle singole organizzazioni. Occorre andare oltre i nostri partiti e la stessa federazione, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza, un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato. Non può più bastare la militanza per inerzia, lo sforzo individuale, spesso ingrato e faticosissimo di dirigenti e militanti del PRC e del PdCI, occorre raccogliere la sfida di una fase ricca di incognite e insieme potenzialità come questa e, da comunisti, saper rilanciare abbandonando “boria di partito” e posizioni consolidate. Serve, con umiltà e apertura, un approccio disinteressato verso tutti quei comunisti e anticapitalisti attualmente non attratti dalle nostre organizzazioni, per questo un processo di questo tipo deve avere come sua premessa essenziale l’azzeramento degli organismi dirigenti esistenti, l’eutanasia di tutte le cattive abitudini che hanno contraddistinto il nostro operare.

Il caso Grillo e la passione tutta italiana per l’eloquenza.



Il caso Grillo e la passione tutta italiana per l’eloquenza.


Gianni Fresu

Il “caso Grillo” è per molti versi l’ultimo esempio della grande passione degli italiani per l’eloquenza e la guida carismatica. Questa tradizione, lunga e consolidata, almeno da D’Anunnzio in poi, ci spiega forse più di ogni cosa perché oggi la gran parte dei partiti politici italiani (PDL, UDC, IdV, SEL, FLI, Lega) reca nei rispettivi simboli il nome del proprio leader. Senza voler entrare nel merito delle rispettive proposte politiche, né fare assurdi paralleli tra le diverse personalità, è un fatto che in Italia ci sia una tendenza del tutto peculiare ad affidarsi ciecamente a un capo politico, cui si attribuiscono capacità illimitate, delegandolo ben oltre il mero rapporto di rappresentanza. Del resto non è certo un caso se uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Gramsci sia proprio un particolare tipo di relazione tra governanti e governati, in linea con un elemento permanente del carattere italiano: la sua propensione a farsi sedurre dalle doti oratorie del “tribuno intelligente”. Così si esprimeva in proposito nei Quaderni, «l’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia. D’Annunzio si presentava come la sintesi popolare di tali sentimenti: apoliticità fondamentale, nel senso che da lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili dal più sinistro al più destro». La guida carismatica è corrispondente a una fase ancora primitiva nello sviluppo dei partiti, una fase nella quale la dottrina è un qualcosa di nebuloso per le masse e queste necessitano di un «papa infallibile», capace di interpretarla ed adattarla alle diverse circostanze. Una fase dominata da «ideologie incoerenti e arruffate» incentrate sul colpo di teatro, l’abilità oratoria e l’emotività delle classi sociali cui fanno riferimento. Se però, per una ragione o l’altra cade improvvisamente il grande leader, l’organizzazione è gettata nello scompiglio e nella crisi più assoluta, vive una condizione anarchica da “8 settembre”. La sola eccezione italiana a questa storia può essere rintracciata nella vitalità molecolare dei grandi partiti di massa tra la Resistenza e il primo dopoguerra, dove di certo non mancavano i leader, ma la loro funzione era mediata da una serie di rapporti organizzativi nei quali la verifica democratica e le forme di partecipazione non erano meramente passive. Il rapporto senza filtri tra leader e masse adoranti, che si può esprimere nelle adunate come nelle forme assembleari, non porta maggiore partecipazione, determina semmai l’emergere di una concezione sempre più mediatica dell’organizzazione politica. Essa contribuisce a edificare nuove oligarchie politiche difficili da controllare e, in quanto tali, indiscutibili, non è la liberazione di nuove energie democratiche. In questi anni ci si è interrogati spesso sulla cosiddetta «crisi della politica», senza però andare mai al fondo dei nodi che riguardano il funzionamento dei partiti, la selezione dei loro gruppi dirigenti e istituzionali basata, in generale, sulla cooptazione fiduciaria attorno a singole personalità. I vecchi partiti del secondo dopoguerra, non gli immensi carrozzoni clientelari degli anni Settanta e Ottanta, avevano pur tra tanti limiti la capacità di realizzare una partecipazione costante alla vita politica, favorendo una formazione di gruppi dirigenti non esclusivamente composti di “specialisti”. La vita dei partiti si articolava nelle strutture culturali, di associazione sportiva e sociale, di agregazione ludica, favorendo una maggiore organicità tra cittadini e politica. So di andare contro l’opinione prevalente, ma la risposta alla crisi del rapporto di rappresentanza non penso possa venire delle primarie, che confondono la personale capacità persuasiva del candidato con la costruzione di una comunità politica, affidandosi alle sue virtù taumaturgiche. Servirebbe semmai una reale autoriforma dei partiti politici, per renderli nuovamente lo strumento principe della partecipazione popolare, assegnando nuovamente ai congressi una funzione alta di luogo collettivo per l’elaborazione, direzione e selezione politica. Oggi assistiamo agli smottamenti inconsulti del sistema politico italiano, in risposta a ciò tutti descrivono spregiativamente Grillo come immondo “pifferaio magico”, ma mi chiedo, la tendenza alla personalizzazione della politica italiana degli ultimi venti anni, a destra come a sinistra, non ha oggettivamente preparato il terreno a questo risultato? E’ una massima storica infallibile, quando un movimento politico punta tutto sulle doti del suo “pifferaio magico”, prima o poi il flauto si rompe o compare sulla scena un suonatore più capace. Spesso le due cose vanno assieme.

 

 

Nell’archivio Podda la memoria di Cagliari. (“La Nuova Sardegna”)

Nell’archivio Podda la memoria di Cagliari.

A cinque anni dalla scomparsa apre in municipio un’esposizione dedicata al giornalista e studioso di cinema

Di Gianni Fresu (“La Nuova Sardegna”, 30 aprile 2012)

 

 

A cinque anni dalla scomparsa di Giuseppe Podda, questa mostra costituisce la prima esposizione pubblica di parte del suo ricchissimo patrimonio fotografico riguardante aspetti di vita sociale, politica e culturale dell’isola e che, a partire dall’immediato dopoguerra, copre un arco temporale di mezzo secolo.

Il fondo “Giuseppe Podda” si compone di foto, documenti, manoscritti, lettere, giornali e riviste, materiali audio-visivi che spaziano dai grandi temi della politica  al teatro, dalle grandi vertenze sociali legate alla storia del movimento dei lavoratori alla musica e al cinema. Uno spaccato di società sarda di grande interesse storico e iconografico per il quale sarà avviato un lavoro di catalogazione e valorizzazione in grado di salvaguardarlo e favorirne la fruizione pubblica. La gran parte delle foto raccolte sono da lui realizzate, tuttavia, non essendosi ancora provveduto a una catalogazione scientifica, non è stato possibile distinguere con certezza le “sue” dalle altre foto da lui raccolte e archiviate. Questa mostra risente ovviamente di tale limite e di ciò ci scusiamo preventivamente con i visitatori, rinviando a un prossimo futuro un più accurato lavoro di presentazione, accompagnato da note e didascalie appropriate.

Giuseppe Podda, nella professione giornalistica come nell’impegno politico, amava integrare riflessioni e testimonianze scritte con corredi d’immagini da lui catturate. Quanti l’hanno conosciuto negli anni della sua attività lo ricordano ancora con l’immancabile macchina fotografica, intento a immortalare con medesimo interesse personalità di spicco, lotte sociali grandi manifestazioni, eventi, strade, mestieri e volti della città che tanto ha amato. Negli ultimi anni della sua vita nel vastissimo e dettagliatissimo archivio dei suoi ricordi, c’era posto non solo per i grandi nomi, quelli su cui si scrive la storia, ma anche e soprattutto per le persone più semplici (dal pescatore, all’operaia della Manifattura tabacchi, dal portuale al minatore, dal muratore al ferroviere), quelli che la storia la fanno quotidianamente, senza aspettarsi commenti e biografie. Un posto speciale era riservato ai militanti, ai compagni di lotte, uomini e donne capaci di impegnare le ferie per fare la festa e diffondere l’Unità, lavoratori tanto appassionati da utilizzare parte della sudatissima liquidazione per contribuire a costruire la Sezione o acquistare il ciclostile. Quando, nell’anonimato, uno di loro veniva a mancare Podda scovava subito dalle sue cartelle foto e aneddoti a testimonianza del loro impegno. Ne parlava con passione, con la stessa dignità che in genere si tributa a un alto dirigente o intellettuale e il più delle volte si stupiva, fino ad arrabbiarsi e chiudere bruscamente una discussione, quando scorgeva nell’interlocutore di turno atteggiamenti di sufficienza o disinteresse. Questa mostra, realizzata attraverso una selezione inevitabilmente arbitraria, intende essere un piccolo spaccato del mondo da lui vissuto, commentato e ricordato.

Antonio Gramsci, figura centrale nella formazione umana e intellettuale di Giuseppe Podda, nelle note dei Quaderni del carcere esortava a cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni: «la storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica, nella loro attività c’è la tendenza sia pure su piani provvisori all’unificazione, ma tale tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti». Proprio perché episodica e disgregata, questa storia lascia poche tracce di sé ed è molto più difficile da rinvenire rispetto a quella delle classi dirigenti. L’errore dell’intellettuale tradizionale per Gramsci consiste nella convinzione che si possa «sapere» senza sentire ed essere «appassionato», cioè credere che l’intellettuale possa essere tale rimanendo distinto e staccato dal «popolo-nazione», cioè senza sentire e comprendere le sue passioni elementari. L’«intellettuale puro», scriveva Gramsci, si accosta al popolo per «teorizzare» i suoi sentimenti non per comprenderli o porsi all’unisono con essi, l’intellettuale puro si china verso il popolo solo per costruire schemi scientifici, si rapporta al popolo come l’entomologo osserva un modo di insetti.

Ecco, Giuseppe Podda non è stato un intellettuale puro, ha sempre preferito «sapere» e «sentire», porsi all’unisono, in rapporto simpatetico, con un universo popolare dolosamente marginalizzato nella vita cittadina. Spostati come un pacco postale da un quartiere all’altro, per assecondare le “scelte strategiche di sviluppo urbanistico”, «i personaggi dolenti della Cagliari “marginale” palpitano di un’umanità straordinaria». Essi portano in dote, di generazione in generazione, un patrimonio storico e culturale di cui raramente hanno consapevolezza, e di cui pertanto evitano di fare sfoggio, ma in definitiva restano l’elemento permanente di una città che non muore:

“La Cagliari di un tempo, con le sue donne energicamente protese a tirar su unu carrasciu de fillusu, oggi ci appare molto lontana, ma se volgiamo lo sguardo verso le desolate periferie, sotto sotto sembra, per certi versi, continuare ancora” (Piccola città)

(Gianni Fresu)

 

“I ladri di Pisa”.


“I ladri di Pisa”.

 

Ovvero:

come far finta di aprire una durissima vertenza con il governo nazionale per poi continuare a governare la regione sotto il suo rassicurante ombrello.

 

In merito al famigerato ordine del giorno (n. 79, approvato dal Consiglio Regionale il 21 marzo, primo firmatario Giacomo Sanna), la prima reazione spontanea, vista la credibilità dei soggetti proponenti, è stata una sonora risata. Tuttavia, al di là di fin troppo semplici battute, quest’ordine del giorno è in sé preoccupante per la faciloneria con cui si imbocca una strada vischiosissima solo per avere spazio sui giornali e smarcarsi giusto in tempo per il certificato di verginità pre-elettorale. Spararla così grossa serve solo a depotenziare il significato degli strappi istituzionali e ad assuefare i cittadini a una politica fatta di annunci sensazionali cui non seguono mai fatti concreti. Una tendenza tipica del vecchio massimalismo socialista: nel Congresso del PSI del 1919 (l’apoteosi storica del massimalismo parolaio) vennero proposti al voto degli ordini del giorno che predisponevano la rivoluzione per la domenica successiva all’assise. Ecco, quella mi sembra la strada intrapresa oggi dal Consiglio regionale sardo.

 

Le parole sono importanti, e temo ci sia o incoscienza sul significato di quelle adoperate o, peggio, una consapevole strumentalità per nulla corrispondente a quel che sino ad oggi questi signori hanno fatto e, soprattutto, a quel che realmente intendono fare ora. L’ordine del giorno (patacca) testualmente recita:  “Verifica dei rapporti di lealtà istituzionale sociale e civile con lo Stato che dovrebbero essere a fondamento della presenza e della permanenza della Regione nella Repubblica italiana”. Senza giri di parole ritengo che se la Lega avesse fatto approvare un dispositivo analogo in tanti avrebbero gridato allo scandalo. Fino a prova contraria, in un quadro costituzionale come il nostro, non è ipotizzabile alcuna verifica della “presenza e permanenza di una regione nella Repubblica italiana”. Anche il più somaro tra gli studenti di diritto costituzionale sa che l’Unità e indivisibilità della Repubblica, come del resto la forma repubblicana dell’ordinamento, sono principi non soggetti a sindacato, transazione o modifica.

 

L’unica strada sarebbe, assolutamente legittima per carità, quella della secessione (con annessi e connessi). Ma se così fosse, tendenzialmente, mi verrebbe naturale nutrire qualche diffidenza sulla buona fede dei primi firmatari di questo Odg. Detta più brutalmente, se proprio dovessi dar credito a una prospettiva di quel tipo mi volgerei ad altri soggetti politici da sempre e con coerenza impegnati in quella lotta, non certo a chi fino ad ora ha esercitato e continua a esercitare ben altro ruolo nella dialettica Stato-Regione. Dietro quest’operazione mi sembra ci sia una gran voglia di spostarsi dal palazzo alla viglia del suo crollo, dopo averlo edificato con tanto impegno e amore (mattone per mattone), dando ovviamente la responsabilità del collasso ad altri. E’ chiaro, i governi Berlusconi, Prodi e Monti hanno una buona fetta di colpevolezza, forse la gran parte, per la condizione in cui versa la Sardegna, ma questo non cancella due dati che a me sembrano dolosamente nascosti sotto il tappeto:

 

1)   I governi nazionali hanno potuto operare in un determinato modo perché sostenuti dalle classi dirigenti sarde, compresi i firmatari di questo Odg (patacca);

 

2) Le dolose responsabilità dei governi nazionali sono ampiamente compensate da quelle dei governi regionali, primo tra tutti, quello tutt’ora in sella che i principali proponenti dell’Ordine del giorno si guardano bene dal disarcionare.

 

Per quanto riguarda il dibattito a sinistra, il vero punto politico è aver dato sponda proprio alle forze politiche maggiormente responsabili del disastro sardo che, incuranti del proprio fallimento, cercano ora di scaricare le loro responsabilità sul governo nazionale e su rapporti di forza (Stato-Regione) fino a oggi sostenuti. Il discorso sarebbe stato diverso se i proponenti della maggioranza avessero legato all’ordine del giorno alcuni atti politici in grado di aprire realmente una vertenza durissima Stato-Regione: 1) staccare la spina al Governo Cappellacci; 2) dimettersi dai ruoli in Giunta e nelle Commissioni; 3) proporre le dimissioni dell’intero Consiglio regionale (e magari anche delle amministrazioni locali). Si è invece preferita la strada più semplice (quella che non fa perdere i “benefici” del ruolo istituzionale ricoperto) lasciando credere che (da questo momento!) la Regione Autonoma della Sardegna era pronta a intraprendere un percorso tanto grave da ridiscutere la propia appartenenza allo Stato italiano (nientepopodimenoche!). Detta brutalmente, mi sembra l’ennesima operazione politicista con cui si prendono per i fondelli i sardi, fare come “i ladri di Pisa” del famoso adagio popolare toscano, quelli che di giorno litigano e la notte vanno insieme a rubare