Lênin leitor de Marx: Dialética e determinismo na história do movimento operário

llm

No final de junho a editora Anita Garibaldi e a Fundação Maurício Grabois estarão lançando “Lênin leitor de Marx: Dialética e determinismo na história do movimento operário” do intelectual comunista italiano Gianni Fresu. O livro, traduzido por Rita Coitinho, traz uma bela apresentação do professor Marcos Aurélio Silva. Segue trecho da orelha da obra: “A publicação de Lênin, leitor de Marx é um motivo de alegria para aqueles que têm no marxismo de Lênin uma referência teórica importante. Sabemos que o pensamento desse revolucionário russo tem estado ausente nos debates acadêmicos, mesmo entre os intelectuais de esquerda (…). Em 1922, preocupado com o crescente menosprezo pela dialética entre os comunistas, Lênin propôs que se criasse uma ‘sociedade dos amigos materialistas da dialética de Hegel’. Hoje, devemos conclamar a intelectualidade marxista revolucionária a formar uma ‘sociedade dos amigos das ideias materialistas e dialéticas de Lênin’. Diríamos que o livro de Fresu contribui nesse esforço”. Augusto Buonicore

“EUGENIO CURIEL”, Il lungo viaggio contro il fascismo.

Gianni Fresu,

EUGENIO CURIEL”.

Il lungo viaggio contro il fascismo,

prefazione di Carlo Smuraglia.

Odradek, Roma, 2013. 305 pp., 20 euro

Sebbene sia alla base della nostra Costituzione repubblicana, poche altre esperienze storiche sono state oggetto di contesa come la lotta partigiana tra il 1943 e il ‘45. Già all’indomani della ritrovata democrazia si moltiplicarono i tentativi volti a ridimensionare la funzione della Resistenza nella storia della liberazione nazionale e il peso specifico della sua componente maggioritaria Tra le pieghe delle rimozioni forzate, o di affrettate esigenze di riscrivere la storia, sono rimaste esperienze collettive e singole personalità di un certo rilievo ma destinate all’oblio della memoria. Fra esse il giovane intellettuale triestino Eugenio Curiel, una figura poliedrica, per interessi e propensioni intellettuali, che immolò la sua stessa esistenza alla causa della liberazione, come tanti della sua generazione. Morto senza aver ancora compiuto 33 anni, ha lasciato un patrimonio di riflessioni, analisi, proposte ed esperienze politiche concrete, degne di maggior attenzione per comprendere meglio le origini  della nostra democrazia repubblicana e il travaglio umano che la generò. Eugenio Curiel si formò e raggiunse l’età adulta negli anni di massima espansione del regime di Mussolini, una fase comunque attraversata da un clima crescente d’inquietudine tra un numero sempre maggiore di giovani, educati nella dottrina del fascismo, ma profondamente insoddisfatti delle sue realizzazioni concrete. Fu interprete e ispiratore della “generazione degli anni difficili”, assolvendo un ruolo di cerniera tra le esigenze di quei giovani con quelle dei vecchi protagonisti dell’antifascismo.

Per acquisti e prenotazioni on line: http://www.odradek.it/Schedelibri/eugeniocuriel.html

Per Info e presentazioni scrivere a fresugianni@tiscali.it

Recensione a “La prima bardana” realizzata da Walter Falgio

«La prima bardana»: storia di identità e conflitto

gennaio 2013 · collana Recensioni

di Walter Falgio

L’identità
Plurale, multiforme, complessa sono solo alcuni degli aggettivi che con buone ragioni possono essere associati al concetto di identità. Tanto più all’identità dei sardi, popolo portatore di una storia e quindi di una cultura millenaria[1]. L’identità sarda non è un monolite che ciascuno incide a suo modo o che ciascuno pretende di caratterizzare definitivamente e in maniera assoluta. Piuttosto si potrebbe ammettere che l’identità di un popolo sia la somma di tutte quelle “incisioni” che dalla letteratura all’arte alla politica, lasciano un segno significativo, sullo stesso piano, senza alcuna gerarchia e in continuo rapporto dialettico.

L’identità è una convenzione culturale che forse non è possibile definire con una modalità univoca e che si forma nella socialità, nel rapporto tra gli uomini. Il racconto di caccia di Emilio Lussu dove lui, nel 1938 a Parigi, riscopre quella «comunità patriarcale senza classi e senza Stato»[2]. Il sistema di regole della “vendetta barbaricina” ove, secondo la descrizione di Antonio Pigliaru, «l’offesa più che poter essere, deve essere vendicata»[3]. La struttura economica, il mondo agrario con le sue estensioni, gli oliveti, gli orti, il paesaggio pastorale con greggi e transumanze. Per esempio, sono anch’essi tutti elementi fondanti e costantemente richiamati nella costruzione dei profili dell’identità sarda.

Fernand Braudel in “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II”[4] racconta che da Cagliari nel Cinquecento il formaggio sardo si esportava nel Continente. Evidentemente la Sardegna dell’epoca con la sua “economia arcaica”[5], con la “vita pastorale invadente”[6] riusciva a stabilire un collegamento con altri orizzonti commerciali pur vivendo “essenzialmente di sé”[7], pur essendo “un continente, un mondo a sé con la sua lingua, le sue usanze”[8]. Anche questa è identità, plurale, che disattende gli schematismi, che non è né chiusa né aperta ma costruita per accumulazione di fattori.

Il conflitto
L’identità di un popolo, dunque, nasce e si sviluppa all’interno di un contesto sociale caratterizzante le interazioni umane e, naturalmente, all’interno dei conflitti. Il libro di Gianni Fesu La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento[9] prima di tutto porta un contributo per una definizione di ulteriori confini dell’identità sarda. Analizza la comunità, le relazioni e appunto i conflitti con un approccio preciso, dichiarato, utilizzando le categorie dei subalterni gramsciani, ricostruendo, inevitabilmente, una storia di uomini e di donne all’interno di processi economici dialettici. Fresu si occupa di uomini uguali, come suggeriva Carlo Ginzburg, di uomini come il mugnaio Menocchio de Il formaggio e i vermi[10], che contro l’Inquisizione romana coltivava attese di giustizia proponendo un modello del mondo diverso e alternativo. La richiesta di giustizia contro la spoliazione, contro l’asservimento, contro la violenza contro il sopruso è uno dei tratti (non certo l’unico e non certo in chiave dogmatica) comuni a diversi profili della storia sarda. Ne La prima bardana questa chiave di lettura è ben argomentata a partire dall’analisi del ribellismo e in un’ottica di lungo periodo. Un ribellismo che a volte assume dei connotati tragici che possono essere ricondotti a un modello di opposizione eterna tra la regola del diritto e una realtà sociale che non ne riconosce fondamento etico[11].

Ma Fresu ammonisce: attenzione a leggere questo conflitto esaltando esclusivamente e misticamente la “costante resistenziale” sarda, concetto che nel tempo si è prestato a innumerevoli strumentalizzazioni. Giovanni Lilliu scriveva:
«Chi guardi con serenità i fatti culturali della Sardegna e le sue possibilità attuali fuori da schemi utopistici e da preconcetti illuministici, potrà convincersi, dopo una certa riflessione, che resistendo nello spazio dei “moderni” pastori delle zone interne, l’antica struttura pastorale nuragica ha assolto una sua funzione storica e non ha mancato di offrire qualche prodotto positivo. Essa ha assicurato con la transumanza, nella divisione politica, l’unità e l’integrità etnica, culturale e storica dei Sardi, legando pastori a contadini e, da ultimo, a operai industriali […]. Ma bisogna anche ammettere che vista oggi, in un contesto di civiltà europea, tale struttura è diventata non dicesi da terzo mondo, ma è semplicemente fuori del mondo contemporaneo; è un meraviglioso oggetto etnografico. Nelle miriadi di Sardegne costituitesi in età nuragica è la spiegazione di fondo della caduta della civiltà antica “regionale”, della mancata “nazione sarda”»[12].

Un passaggio che forse fa il paio con le conclusioni di Giulio Angioni daRapporti di produzione e cultura subalterna, già richiamate da Fresu:

«Questa tradizione locale è a volte esplicitamente immaginata come una situazione che fa (e che soprattutto faceva) sì che siano (quando conservati genuini) laboriosi e pii e rispettosi e fieri e soprattutto naturali i contadini e i pastori, e i loro pari e fratelli generosi i padroni e i proprietari terrieri sardi, si badi bene: i cattivi erano e sono sempre gente di fuori!»[13].

In più e oltre l’esaltazione di un passato sensazionale, altre patologie sono tipicamente diffuse nelle manifestazioni culturali, o pseudo tali, dell’intellighenzia provinciale. Esse ben si associano alle riletture apologetiche del “grande passato” e sono rappresentate dal “Cosmopolitismo di maniera” e dal “regionalismo chiuso”. Qui, evidentemente, si introducono temi decisamente gramsciani puntualmente sottolineati da Fresu:

«Gramsci vi vede due deviazioni attive e operanti nella stessa lotta di classe sarda, sia in termini d’un avanguardismo esasperato che separa i potenziali gruppi dirigenti, e in primo luogo gli intellettuali, dal movimento di massa, sia sotto la forma del separatismo e dell’indipendentismo su base regionale, una versione appena più sofisticata di quell’istintiva ideologia dell’”a mare i continentali!” che lo stesso giovane Gramsci aveva conosciuto e praticato. In entrambi i casi il risultato politico consiste nella separazione dei contadini e dei pastori sardi dai loro “fratelli continentali”, nella frammentazione di un potenziale fronte di lotta anticapitalistico, in un vantaggio per l’avversario di classe»[14].

Un’analisi antidogmatica
La Questione sarda, e le letture del ribellismo, tuttavia, hanno una maturazione del tutto particolare all’interno della Questione meridionale e Fresu le analizza superando gli schematismi consolidati appena citati, vagliando criticamente gli studi filo sabaudi, quelli irrimediabilmente chiusi nella vulgata sardista identitaria, o perfino, le elaborazioni figlie delle visioni esotico folkloristiche o della retriva scuola positivistica dell’antropologia criminale.

Fresu, attraverso le griglie interpretative del conflitto di classe[15], propone uno studio attento e per certi versi inatteso e non scontato del banditismo sardo. Uno studio che non indugia in dogmatismi di maniera ma piuttosto supera facilmente le stesse inclinazioni verso impostazioni del materialismo storico sterili e meccaniche[16]. Secondo Fresu gran parte delle contraddizioni sociali a cavallo tra moderno e contemporaneo ruotano attorno al mutamento di regime sociale di produzione rappresentato dalla privatizzazione fondiaria. A monte di questi processi ci sarebbe altresì la tradizionale dialettica tra agricoltura stanziale e pastorizia errante. Umberto Cardia annotava in proposito:

«Il brigantaggio sardo, forma peculiare di banditismo rurale, i cui rudimenti disgregati permangono nelle ultime vicende del nostro secolo, sgorga continuamente, oltre che da radici e motivi di carattere più generale e politico, da quella contraddizione come prodotto organico non della povertà endemica ma del sistema di appropriazione e di gestione della terra e del pascolo»[17].

Un brigantaggio che nelle sue origini storiche non può essere dissociato da aspirazioni di emancipazione e matrici di carattere politico volte a contrapporre una forma “sia pure degradata di libertà” a modelli importati dal continente. Uno spirito di rivolta contro l’oppressione feudale prima e capitalistica poi che nei secoli trascorsi ha registrato il consenso tacito o espresso di intere comunità montane della Sardegna[18].

Note
[1] Quale sintesi dell’amplissimo dibattito in proposito, si veda L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), La Sardegna (Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi), Einaudi, Torino 1998, pp. XIX-XXIII: «L’identità della Sardegna contemporanea è costituita da una pluralità di fattori, che, come i cristalli di un caleidoscopio, si sono scomposti e ricomposti, offrendoci nel corso del tempo immagini di volta in volta diverse e talvolta contraddittorie».
[2] E. Lussu, Tutte le opere. Da Armungia al Sardismo 1890-1926, a cura di Gian Giacomo Ortu, Aìsara, Cagliari 2008, p. 539. La prima edizione italiana deIl cinghiale del diavolo: caccia e magia è del 1968 per Lerici, Roma.
[3] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, Il maestrale, Nuoro 2000, p. 139. La prima edizione dello studio è del 1959 per Giuffré, Milano.
[4] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 2002, v. I, pp. 146-148. La prima edizione italiana del grande lavoro di Braudel è del 1953 sempre per Einaudi.
[5] Ibid.,
[6] Ibid.,
[7] Ibid.,
[8] Ibid.,
[9] Cuec, Cagliari 2011.
[10] Einaudi, Torino 1976.
[11] Come il drammatico scontro sofocleo tra Antigone e Creonte.
[12] G. Lilliu, “Al tempo dei nuraghi”, in La società in Sardegna nei secoli, ERI-Edizioni RAI Radiotelevisione italiana, Torino 1967, p. 11. Passaggio citato anche in Prefazione a G. Lilliu, La costante resistenziale sarda, a cura di Antonello Mattone, Ilisso, Nuoro 2002, p. 79.
[13] G. Angioni, Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna, Edes, Cagliari 1982, pp., 15, 17.
[14] G. Fresu, La prima bardana, cit., n. 7, p. 27, ove è richiamato G. Melis,Antonio Gramsci e la questione sarda, Edizioni della Torre, Cagliari 1977, p. 14.
[15] Engels nella nota recensione a Per la critica dell’economia politica di Marx, scriveva: «L’economia non tratta di cose, ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi; questi rapporti sono però sempre legati a delle cose e appaiono come cose». In K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 201.
[16] Piuttosto che inverare immagini di uniformità e sacralità del conflitto, Fresu ribadisce una predisposizione antidogmatica che ne tratteggia le contraddizioni. In proposito l’autore richiama alla fine del testo una citazione di Engels tratta da una lettera scritta a Bloch il 20 settembre 1890: «Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza determinante nella storia è la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda». In F. Engels, Sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1949, p. 75.
[17] U. Cardia, Autonomia sarda. Un’idea che attraversa i secoli, Cuec, Cagliari 1999, pp. 37, 38.
[18] G. Fresu, La prima bardana, cit., pp. 42-43

Eugenio Curiel, i giovani e la Resistenza. La generazione che “rottamò” il fascismo.

Eugenio Curiel, i giovani e la Resistenza.

La generazione che “rottamò” il fascismo.

Gianni Fresu

 

I temi del rinnovamento anagrafico e della cosiddetta “rottamazione”, sembrano oggi monopolizzare l’attenzione del dibattito politico, sovente a prescindere dalla proposta avanzata. Nella storia non sono mancate fratture generazionali, tuttavia, i risultati più profondi in termini di rinnovamento si sono avuti quando tra vecchie e nuove generazioni si è determinata una saldatura incentrata sulle scelte di campo. La lotta di liberazione dal nazifascismo è un esempio in tal senso proprio per l’irrompere diffuso di giovani cresciuti nel regime che, nella clandestinità, trovarono un terreno d’incontro con i vecchi protagonisti dell’antifascismo sconfitto da Mussolini. Tra le figure dimenticate, eppure più significative, di quella pagina di storia si può annoverare quella del giovane scienziato e partigiano Eugenio Curiel di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Nato a Trieste l’11 dicembre 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in Ingegneria a Firenze e il Politecnico a Milano, si laureò in fisica e matematica a Padova nel 1933 con il massimo dei voti e una tesi sulle disintegrazioni nucleari. Con la docenza universitaria, Curiel iniziò a partecipare anche ai seminari di studi dell’Istituto di filosofia del diritto. Ciò gli diede l’opportunità di curare l’altro versante delle sue passioni intellettuali, facendo i conti con la filosofia idealista di Croce e Gentile per arrivare attraverso Hegel al marxismo, secondo un percorso comune a tanti giovani della sua generazione. A questo periodo risalgono anche i suoi primi scritti e l’avvio di una più matura elaborazine politico-filosofica. Con altri giovani come Atto Braun, Renato Mieli (il padre di Paolo) e Guido Goldschmied costituì la cellula comunista di Padova, quindi nel ’36 stabilì un contatto con il PCI e partì per Parigi. Tra gli esiliati politici, l’arrivo di giovani italiani, che con l’entusiasmo e la voglia di fare si portavano dietro testimonianze dirette della situazione nel Paese, era atteso come una boccata d’aria fresca. Tornato a Padova con le direttive del partito, Curiel dovette fronteggiare la delusione dei suoi giovani compagni, desiderosi di passare all’azione e poco propensi a dedicarsi alle sole attività di penetrazione nelle organizzazioni fasciste indicate dal centro estero del PCI. In coerenza con le direttive ricevute, Curiel iniziò una stabile collaborazione con il giornale universitario fascista “Il Bò”, dove scrisse 54 articoli tra il 1937 e il ’38 curandone la pagina sindacale. Le lunghissime discussioni redazionali si spostarono alle fabbriche, per l’intuizione di confrontare preventivamente le questioni da trattare nel giornale con gli stessi operai. Ciò consentì al gruppo di costruire solidi legami sociali nel mondo del lavoro, poi rivelatisi fondamentali con lo sgretolamento del regime. Ottenuto nel dicembre del 1937 il passaporto per motivi di studio, riuscì tornare a Parigi dove per due mesi ebbe modo di rafforzare sempre più i rapporti con Donini, Grieco e Sereni. Curiel avrebbe voluto dedicarsi totalmente all’attività clandestina, ma il centro estero lo convinse a sfruttare fino all’ultimo gli spazi legalitari che ancora gli erano rimasti e di non rinunciare né al suo lavoro universitario, né all’attività nei GUF. Nel 1938, abbandonata la collaborazione con “Il Bò” ed estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi razziali, Curiel tornò a Parigi in una fase difficilissima per le forze antifasciste, con la Guerra Spagnola avviatasi verso una tragica sconfitta e dissidi sempre più grossi tra le forze della sinistra. Gli offrirono diverse sistemazioni lavorative sicure in Francia, Svizzera e persino negli USA USA – dove ebbe l’opportunità di partire per fare da insegnante al figlio di uno dei più importanti magnati dell’industria cinematografica, Luis Burt Mayer – ma li rifiutò tutti per non abbandonare la sua militanza e l’impegno antifascista nel Paese. Fermato dalla polizia svizzera nel maggio fu arrestato nel mese di giugno. Sottoposto a interrogatorio a San Vittore e mandato al confino a Ventotene, dal gennaio1940, Curiel si dedicò allo studio e alla formazione dei confinati antifascisti. Lasciata Ventotene, dopo tre anni, insieme agli altri confinati, Curiel tornò in libertà proprio alla vigilia dell’8 settembre. Trasferitosi a Milano, su indicazione della direzione Alta Italia del PCI, con il compito di creare il Fronte della Gioventù, curare l’edizione settentrionale de “l’Unità” e della rivista “La nostra lotta”, diventò il «partigiano Giorgio». Dopo una medaglia d’oro al valor militare, una lapide e un inno partigiano a lui dedicato, di questa singolare figura, tanto interessante da meritare una sceneggiatura cinematografica, rimangono alcune vecchie pubblicazioni e il ricordo degli ultimi testimoni di quella storia. La generazione di Curiel diede alla guerra di liberazione una parte consistente di quadri e la sua base di massa. Giovani cresciuti nel regime, ma capaci di emanciparsi dal fascismo, aderire all’opposizione e affiliarsi nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie generazioni di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani inquieti e insoddisfatti dal regime c’era un salto generazionale, ciò nonostante tra essi si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza. I leaders del vecchio movimento antifascista, costretti all’emigrazione dopo il carcere e le violenze subite, senza l’apporto delle nuove generazioni difficilmente avrebbero potuto raggiungere una tanto vasta mobilitazione contro il movimento di Mussolini. Le nuove generazioni allevate a “pane e fascismo” e non “contaminate” dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole. Il 24 febbraio 1945, dopo aver pranzato in ufficio con la sua compagna, con Arturo Colombi e con altre due giovani collaboratrici e aver discusso il piano del numero de “l’Unità” in preparazione lasciò la redazione, riconosciuto sulla strada da un delatore, fu raggiunto e ucciso da una squadra fascista. Curiel morì a due mesi dalla liberazione di Milano, non aveva ancora compiuto 33 anni. Le cronache narrano che sul suo sangue un’anziana fioraia milanese gettò una manciata di garofani rossi. Tra tutti, per concludere, il ricordo dell’amico Giorgio Amendola: «Passammo, così, anche l’ultima notte del ’44, e salutammo con gioia il nuovo anno, quello della vittoria ormai certa. Ci vedemmo ancora una volta, qualche settimana dopo, e ci lasciammo in quel bar, all’angolo di Corso Magenta, da cui sarebbe uscito il 24 febbraio per andare in Piazzale Baracca incontro alla morte, alle pallottole dei fascisti. Anche la sua vita fu gettata nel rogo, come quella di tanti altri giovani. Ed il suo sacrificio, così crudele alla vigilia della liberazione, ha fatto di Eugenio Curiel, medaglia d’oro, un simbolo, il capo della gioventù della Resistenza». Quei giovani anteposero un ben preciso progetto, abbattere il regime e ricostruire da zero la democrazia, alla velleitaria pretesa di tagliare orizzontalmente ogni rapporto con le vecchie generazioni, non solo con quelle responsabili della dittatura, ma anche con chi lo aveva combattuto, seppur perdendo. Scelsero piuttosto di “rottamare” il fascismo.

 

 

 

 

Recensione a “La prima bardana” di Graziano Pintori, “Manifestosardo”.

 

Fonte:  “Manifestosardo”, numero 126, 16 luglio 2012 (http://www.manifestosardo.org/?p=14502)

“La prima bardana” è il risultato di uno studio serio e diligente di Gianni Fresu, il quale si è preso la briga di approfondire il periodo in cui furono aboliti gli ademprivi – ovvero l’uso civico dei pascoli, la raccolta del legnatico, l’utilizzo delle fonti ecc. – a vantaggio della proprietà privata. “La prima bardana” non è un titolo a caso, lo leggo come la denuncia di un atto criminoso, voluto e legalizzato dai piemontesi con il Regio editto sopra le chiudende; fu un atto che consentì l’appropriazione delle terre da parte di ex feudatari, da benestanti avidi e prepotenti, in combutta con la locale classe politica, sempre prona e sodale “chin sos imbasores”. Fu l’imposizione di un atto legislativo incongruente rispetto alle aspettative della vasta comunità dei poveri.
Da questa ingiustizia storica ebbe origine il banditismo, il quale, sotto certi aspetti, assunse caratteri politici/sociali: una rivolta armata “contra sa prepotentzia e sos malos usos ”. Dal lavoro di Fresu si coglie il continuum storico della Sardegna dal ‘700, lungo l’800 e tutto il secolo breve, con accentuazioni sociologiche ancora vive in questo scorcio del nuovo millennio. Sono tre secoli di storia sarda in cui cambiano personaggi, voci e suoni, ma il senso dello Stato, esattore e carabiniere, non muta nel rapporto con i sardi. Come pure l’economia isolana continua ad essere imposta dalle strategie dei mercati nazionali ed internazionali, senza trovare ostacoli di sorta da parte della rappresentanza politica regionale, che, in quanto a subalternità al potere costituito ed al trasformismo avrebbe poco da rimproverare a Depretis,. Non a caso gli avvenimenti narrati si snodano lungo il filo della imposizione di un nuovo modello di sviluppo, alternativo all’attività economica sociale radicata da millenni nella cultura resistenziale della pastorizia errante.
In questa pratica antica i piemontesi individuarono, a loro modo, l’origine di tutti i mali, il freno alla modernizzazione e al rifiorimento della Sardegna. Gli abitanti delle zone interne, dove questa pratica suggeva linfa e vitalità, furono identificati come il fulcro “reberde a sas mudassiones “, perciò sottoposti ad una continua repressione poliziesca, giustificata anche dal fatto che questi erano portatori di tare delinquenziali.
Oggi, nei tempi di Monti, BCE e mercato globale il termine colonizzazione può suonare un po’ obsoleto, però su quest’isola conserva tutta la sua efficacia e attualità. Partiamo dall’industria casearia, la quale, da qualche secolo e più, opera nell’isola indisturbata. Gli industriali impongono ai produttori il prezzo del latte stabilito dal loro cartello, da cui hanno origine le ragioni delle numerose lotte dell’odierno movimento dei pastori. Alla pari le attuali proteste contro Equitalia, ossia lo stato esattore, da parte del popolo delle campagne sono causate dalla vertiginosa lievitazione delle spese e degli interessi sui prestiti ipotecari, in cui si intravvedono le analogie con quelle che furono le imposte sabaude: molto più alte del valore della terra affidata.
La Chimica, lo sfruttamento energetico, l’occupazione militare, con tutti gli effetti devastanti sugli abitanti e sul territorio, sono il frutto di un regime coloniale barbicatosi prima con i piemontesi, poi con lo stato unitario e oggi pianificato dalle multinazionali, con l’assenso del governo centrale e quello dei mallevadori locali della RAS. “La prima bardana” arricchisce la storiografia sarda anche perché sottopone al lettore, in modo neutrale, i riferimenti al marxismo, relativamente all’accumulazione delle proprietà da parte dell’insaziabile borghesia; il libro suscita il giusto interesse perché cita Gramsci rispetto alla dialettica città-campagna, indica la questione meridionale come il mezzo più idoneo per addentrarci nelle origini della questione sarda.
Inoltre, il lettore può riflettere sulle interessanti analisi storiche e politiche di R. Laconi, U. Cardia, G. Sotgiu, I. Birocchi e altri. Per di più, se da un lato il Risorgimento Italiano storicamente inteso come ampio movimento per l’affermazione nazionale, per la libertà e l’unità d’Italia, in Sardegna si rivelò come un profondo disastro sociale ed economico. Per la Sardegna il Risorgimento non fu, sicuramente, un ritorno alla vita…anzi. L’antico detto sardo: “su nimicu benit dae su mare” non fu smentito dagli effetti del Risorgimento Italiano, ma contribuì a perpetuarlo nel tempo, tanto che ancora oggi è vivo in tutto il suo drammatico significato.
Sfidando i miei limiti sono voluto intervenire sul libro di Fresu semplicemente perché mi è piaciuto. Mi sono sentito coinvolto dall’opera perché certi temi ho già avuto modo di trattarli sul ‘manifesto sardo’ (numeri 114 e 115), in cui mettevo in rilievo come, ancora oggi, i possidenti terrieri assenteisti continuino ad arricchirsi, alla stregua di chi possiede una inesauribile e preziosa miniera a cielo aperto.
Il libro di Fresu l’ho letto come si legge la storia di una terra colonizzata, segregata non dalla geografia ma da scelte politiche ed economiche ben definite.
E’ un libro che non concede spazi al folclore, agli inutili e soliti piagnistei dei perdenti, non concede spazi all’eccessiva considerazione di se stessi, come popolo sardo, che, per citare Angioni, “ identifica il bene con la tradizione locale e il male con tutto ciò che non lo è”.

Graziano Pintori.

 

Gianni Fresu, “La prima bardana”. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento.


Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell'Ottocento

G. Fresu

“La prima Bardana”

Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento.

(CUEC, Cagliari, 2011)

L’Ottocento è un secolo emblematico per la storia d’Italia, non solo per i processi politici che preparano e conducono in porto un evento tanto complesso e difficile a realizzarsi come l’Unità d’Italia, ma anche perché in esso si determinano significative tensioni dialettiche connesse alla modernizzazione, destinate ad avere importanti riflessi anche sulla storia del Novecento. Ciò riguarda in primo luogo la storia della Sardegna oggetto di un profondo processo di trasformazione ricco di contraddizioni. In Sardegna la tradizionale dialettica città-campagna assume una sua connotazione peculiare come dialettica incrociata tra borghesia urbana e comunità dedite alle attività pastorali e, allo stesso tempo, tra agricoltura stanziale e allevamento errante. Tutti i problemi economici, culturali e politici connessi alle riforme sulla proprietà perfetta e l’eversione del vecchio regime feudale, così come le fasi più acute di malessere sociale sfociate nelle ondate di banditismo, sono connesse strettamente a questa dialettica. Negli stessi anni in cui assume connotati di massa il fenomeno del Brigantaggio meridionale raggiunge punte estreme di intensità il banditismo sociale in Sardegna. La peculiarità, e se vogliamo l’elemento di maggior interesse scientifico, è che in Sardegna abbiamo un’anticipazione di alcuni tratti essenziali nelle forme di egemonia e dominio dei governi sabaudi che finiranno per contraddistinguere, per diversi aspetti, anche la successiva presa di possesso delle regioni meridionali dopo l’Unità. Ciò vale anche per le forme di resistenza che in diverso modo si manifestano, rispetto alle quali assumono particolare interesse le riflessioni sui subalterni, e sulla natura «episodica e disgregata» della loro storia, di Antonio Gramsci.

 

Per acquisti on line:

http://www.cuec.eu/index.php/acquisti-on-line/

http://www.librisardi.it/

Per info:

fresugianni@tiscali.it

 

 


Oltre la parentesi – Fascismo e storia d’Italia nell’interpretazione gramsciana

Aldo Accardo, Gianni Fresu, Oltre la parentesi – Fascismo e storia d’Italia nell’interpretazione gramsciana
Carocci, 2009, pp. 177

ACQUISTA ONLINE

Il fascismo è il tema politico della storia d’Italia che ha dato luogo alla quantità maggiore di studi che hanno posto la propria attenzione ora su questo ora su quell’aspetto – storico, economico, sociale o morale – costitutivo o predominante del fenomeno. Oltre la parentesi, in polemica con le tesi crociane ripercorre i temi della costituzione e dello sviluppo del fascismo in Gramsci, in rapporto al tema delle classi dirigenti nella Storia d’Italia. Una debolezza che affonda le sue radici nell’arresto dello sviluppo capitalistico della civiltà comunale, nella natura cosmopolita dei ceti intellettuali, nella mancata formazione di uno Stato unitario moderno, prima che una serie di concomitanze di carattere internazionale consentissero tale processo. Come rileva Nicola Tranfaglia nella sua prefazione, «il saggio ha il merito di fornire elementi storici e concettuali di grande interesse per analizzare nel lungo periodo gli esiti recenti della difficile crisi che sta attraversando la democrazia repubblicana»

Gli strumenti della politica

Catalogo della biblioteca di Renzo Laconi.

Saggio introduttivo di Gianni Fresu

Catalogo di Roberto Moro e Franco Satta

Aìsara edizioni, Cagliari, (pp. 630)

ACQUISTA ONLINE

Renzo Laconi, politico e intellettuale, ha dedicato le sue energie per fare interagire l’aspirazione alla rinascita economico-sociale della Sardegna con il più complessivo processo di «riforma intellettuale e morale» avviato in Italia con la lotta di liberazione e il varo della Costituzione repubblicana. Nella sua attività politica, così come nei suoi studi, i due livelli – Sardegna-Italia – si integrano in maniera organica. Dalla storia alla politica, dalla politica alla storia, Renzo Laconi ha varcato di continuo la soglia tra questi due versanti, abbattendo tramezzi e muri divisori. La storia non doveva restare patrimonio esclusivo dei grandi santoni del mondo accademico e intellettuale, la politica non doveva rimanere nel chiuso delle burocrazie, tanto del mondo tecnico-amministrativo, quanto dei partiti. L’idea di popolo sardo che Laconi ha teorizzato, come entità mai statica o cristallizzata, nasce dall’appropriazione da parte delle grandi masse popolari isolane degli strumenti intellettuali e organizzativi, fino ad allora recintati alle ristrette élite dei Chierici. La storia e la politica come patrimonio comune e condiviso attraverso il quale pastori, contadini, minatori e lavoratori, sarebbero dovuti divenire protagonisti del proprio processo di emancipazione economica e sociale.

Lenin lettore di Marx

Gianni Fresu, Lenin lettore di Marx
La città del Sole editore, Napoli, 2008, pp. 254
Recensione di Andrea Comincini – su «Recensioni Filosofiche», n. 38, aprile 2009

ACQUISTA ONLINE

Dopo la caduta del muro di Berlino e la recente sconfitta italiana della sinistra comunista, molti studiosi ed intellettuali si sono interrogati sulle fondamenta teoriche di una azione politica volta a sovvertire l’ordine attuale del sistema. Il nuovo libro di Gianni Fresu, esperto di Gramsci ed attento conoscitore delle dinamiche del movimento operaio, ha come obiettivo quello di raccogliere le testimonianze filosofiche nate dal seme fertile della dottrina di Marx e di seguirne l’evoluzione attraverso la Seconda e la Terza Internazionale, fino a giudicarne l’efficacia teoretica e tattica. Il titolo del libro non definisce appieno l’intenso lavoro svolto, poiché l’autore non si confronta soltanto con Lenin, ma anche con gli esponenti più illustri del movimento comunista, fra cui Bernstein, Luxemburg, Kautsky ecc. Chiarificatore è invece il sottotitolo – ovvero “dialettica e determinismo nella storia del movimento operaio” – in quanto delinea maggiormente il terreno nel quale Fresu si è cimentato, accompagnando il lettore nella direzione di una analisi ampia e dettagliata. Nucleo centrale del suo lavoro, infatti, è determinare il più chiaramente possibile le complesse e varie posizioni del socialismo assunte innanzi ai drammatici eventi nati prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre. In un contesto internazionale angosciante, con una guerra mondiale alle porte, la caduta dello Zar, la vecchia Europa scossa e frastornata, è innegabile che il movimento socialista dovette fare scelte tattiche difficilissime, pena la sconfitta su tutti i fronti. Fresu comincia la sua analisi partendo da questo quadro generale e analizza le posizioni revisioniste di Bernstein o di Kautsky, imputando loro sostanzialmente di contenere in sé ancora un certo idealismo borghese o una mancata comprensione del marxismo. Molto chiara per esempio è la dimostrazione della confusione di Kautsky a proposito dei concetti di capitale finanziario ed industriale, la quale in definitiva lo spinge su posizioni interventiste e quindi ad evidenziare quanto un limite teorico possa incidere sulla sfera politica. La disamina ovviamente è complessa ed avvincente, poiché si avvale di un gran numero di documenti, nonché dei testi di Marx medesimo, ed è preferibile rimandare il lettore ad un diretto confronto con i testi per non concedere troppo a eccessive semplificazioni. Da sottolineare invece l’abilità stilistica dello scrittore e la vocazione sistematica, a tratti didattica, capaci di render l’opera facilmente comprensibile e mai pedante: Fresu coglie nell’essenza le incongruenze del pensiero revisionista o di chi dall’ortodossia passò in seguito a posizioni più moderate, perché sa leggere nella realtà le deviazioni e le sconfitte che queste interpretazioni portarono.