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Renzo Laconi, storia ed emancipazione della Sardegna.

Renzo Laconi, storia ed emancipazione della Sardegna.

Gianni Fresu

Relazione tenuta al Convegno “Centenario di Renzo Laconi”, CID, Rettorato dell’Università di Cagliari (2/3 marzo 2016)

La biblioteca di Laconi[1], attualmente custodita dalla Fondazione “Giuseppe Siotto”, rappresenta in sè uno straordinario patrimonio, configurandosi come una chiave di accesso utile a indagare la complessità umana e culturale di colui che la creò. Di questa vasta e articolata biblioteca, composta di quasi 6000 titoli, Roberto Moro e Franco Satta ci hanno fornito tutte le coordinate al termine di un lungo e minuzioso lavoro di catalogazione, condotto con le più aggiornate tecniche biblioteconomiche. Dunque, per approfondirne la conoscenza, rinvio al loro catalogo, limitando queste brevi considerazioni a quanto di mia competenza. Quando fu realizzato questo catalogo, personalmente mi occupai di accompagnarne la realizzazione con una sintetica biografia umana e politica di Renzo Laconi.

La straordinaria vastità della biblioteca di Laconi ci restituisce intatto il tracciato di un percorso politico ed intellettuale contraddistinto da una molteplicità di direzioni e interessi, alcuni anche sorprendenti. Una biblioteca specchio fedele della sua personalità e testimone del tentativo di cui, insieme ad altri, Laconi fu parte: immettere la storia delle classi subalterne sarde, con tutto il suo retroterra di tradizioni popolari e manifestazioni culturali, nel grande alveo della storia generale, della politica nazionale ed internazionale. Se la Sardegna esprimeva storicamente il problema di una soggettività marginale e subalterna ciò valeva ancora di più per le sue masse popolari inquadrate in livelli di assoggettamento molteplice.

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Nel famoso Quaderno 25[2], oggi considerato punto di riferimento irrinunciabile per Cultural, post-colonial e subaltern studies, Gramsci sottolineò un concetto fondamentale poi raccolto e valorizzato da Laconi: ogni traccia di autonoma iniziativa, politica, sociale e culturale, da parte delle classi subalterne assume un valore «inestimabile» per la natura «episodica e disgregata» della loro storia. Nella loro attività i gruppi subalterni subiscono costantemente l’iniziativa dei gruppi dominanti anche quando si ribellano e insorgono. La conseguenza diretta è che le tendenze verso una centralizzazione coerente di tale attività, capace di andare oltre il ribellismo, è sempre spezzata e resa disorganica dalla capacità di interdizione delle classi dominanti, dunque dalla solidarietà di interessi tra queste e le principali funzioni intellettuali, su cui si articolano gli apparati privati dell’egemonia nella società civile. In questo nodo andava ricercata la chiave per comprendere anche il rapporto tra classi dirigenti sarde e nazionali, alla luce di quel grumo di interessi sociali e politici, saldatosi con l’Unità d’Italia, difinito da Gramsci “blocco storico”.

L’Ottocento è un secolo emblematico per la storia d’Italia, non solo per i processi politici che preparano e conducono in porto un evento tanto complesso e difficile a realizzarsi come l’Unità, ma anche perché in esso si determinano significative tensioni dialettiche connesse alla modernizzazione, destinate ad avere importanti riflessi anche sulla storia del Novecento. Ciò riguarda in primo luogo la storia della Sardegna oggetto di un profondo processo di trasformazione ricco di contraddizioni[3]. La peculiarità, e se vogliamo l’elemento di maggior interesse scientifico, è che in Sardegna abbiamo un’anticipazione di alcuni tratti essenziali nelle forme di egemonia e dominio dei governi sabaudi che finiranno per contraddistinguere, per diversi aspetti, anche la successiva presa di possesso delle regioni meridionali dopo l’Unità.

Nel trattare la storia della Sardegna, in rapporto alle dominazioni succedutesi, Laconi[4] ha sottolineato l’esigenza di un’analisi disincantata, per evitare due limiti opposti e speculari, accomunati dalla stessa identica impostazione antidialettica e antistorica: la tendenza a interpretare le vicende della Sardegna in funzione della storia d’Italia, come una sua incerta appendice; la rappresentazione consolatoria e vittimista di una Sardegna nella quale ogni problema di arretratezza, miseria e subalternità è ricondotto alla alla sua misconosciuta questione nazionale. Quest’ultimo, a ben guardare, è lo stesso problema presente in tanta parte della storiografia risorgimentale dell’Ottocento, di cui si è occupato diffusamente Gramsci nei Quaderni, spiegando la sua natura ideologica come essenziale funzione di governo. Dopo averla definita storia feticistica, l’intellettuale sardo collocò l’agiografia risorgimentale nel terreno delle della manipolazione storica, fu insomma una propaganda interessata, finalizzata a creare una unità di fatto basandosi sulla letteratura più che sulla storia; quell’approccio all’unità era un «voler essere», piuttosto che un «dover essere» determinato da condizioni di fatto già esistenti. Esattamente come nella storiografia agiografica risorgimentale italiana, e per le medesime ragioni politiche, una certa malintesa, mistica, esaltazione della “costante resistenziale sarda” ha come faccia opposta della medaglia la reiterata ricerca di una causa esclusivamente esogena dei mali che affliggono l’isola, liberando da ogni responsabilità soggettiva le classi dirigenti sarde: l’idea che la Sardegna avrebbe in sé delle immense risorse mai sfruttate a dovere solo per effetto della colonizzazione subita, per un destino sfortunato imposto dalla ferocia del dominio forestiero «causa di ogni male e affossatore di ogni bene».

L’oblio della storia della Sardegna, scrisse in proposito Laconi, ha costituito per un’intera generazione d’intellettuali, specie nel secondo dopoguerra, un tema di assoluto rilievo politico. Una storia con i suoi limiti e i suoi tesori, né da mitizzare né da misconoscere, cui andava restituita la sua importanza con una prospettiva di apertura internazionale. Negli anni dei grandi dibattiti sulla Rinascita della Sardegna, riscattare quella storia dalle consolatorie narrazioni del «regionalismo chiuso» e insieme dalle valutazioni sprezzanti del «cosmopolitismo di maniera», era un’esigenza organicamente connessa ai grandi temi dello sviluppo economico e culturale. Nei manuali di storia la Sardegna emergeva solo raramente e in funzione totalmente marginale, fino ad apparire «niente altro che terra di conquista disertata dal genio nel corso dei secoli». Contro questa visione, in Sardegna, tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, si era sviluppato un movimento culturale che attraverso la ricerca storica intendeva sottrarre la Sardegna dall’oblio, dal silenzio delle memorie e dalla derisione storica dei suoi dominatori. Da questo territorio di ricerca quel movimento si era esteso agli studi economici, dell’arte, della poesia e della letteratura. Da quest’aspirazione nasceva il progetto politico del sardismo, poi soffocato dal fascismo condannando l’isola ad altri venti anni di dolorosa amputazione della sua storia e delle sue tradizioni, attraverso la cancellazione di ogni spazio che consentisse un proprio fermento culturale autonomo. Questa lunga, pervasiva, stagione di chiusura politica e culturale, secondo Laconi, aveva finito per influenzare anche la mentalità di tanti giovani intellettuali sardi, i quali, pur non essendo divenuti fascisti si lasciarono guidare dall’inerzia e dalla pigrizia, piuttosto che trovare un comune orientamento ideologico attraverso il quale resistere all’oscurantismo. A quella pigrizia e alle sicurezze conformiste, che l’impiego intellettuale garantisce, Laconi riconduceva anche l’atteggiamento provinciale di buona parte degli intellettuali sardi nei confronti della propria cultura, vissuta con malcelato fastidio e con l’irrisione verso l’ambiente e le tradizioni locali. Questo approccio produceva una frattura tra gli intellettuali isolani e il profondo sentimento sardista che animava il pastore o il semplice contadino.

Quella della Sardegna non poteva essere intesa come storia indistinta del popolo sardo, ma come storia di lotta delle sue classi («di gruppi gentilizi, di popoli, di ville e città, di province e di Capi e cioè di formazioni particolari in lotta tra loro e con altre formazioni politiche»), al cui interno si andava a definirsi, di volta in volta, la corrispondente fisionomia economico-sociale e l’ordinamento istituzionale. Intesa in questi termini la storia sarda per Laconi non era né più «povera» né più «squallida» della storia degli altri paesi.

Come in tutto il resto d’Europa, anche in Sardegna una coscienza unitaria sorge con l’affermarsi della sua borghesia, tuttavia, in Sardegna essa si viene a chiarire, dopo la prima guerra mondiale, come variante con sue specificità all’interno della questione meridionale, vale a dire, quando essa trova una prospettiva politica attraverso l’«appello sardista all’iniziativa e all’autogoverno».

Le lotte antifeudali del 1793-96, sicuramente, non nacquero dal nulla e non caddero nel vuoto, così come a sua volta l’abolizione dei feudi non fu un provvedimento staccato catapultato nell’isola dal governo piemontese. Indubbiamente la borghesia era debole e sprovvista di basi, tuttavia, essa non era priva di sentimenti patriottici e liberali. Essa trovò poi nella nuova fase un compromesso con la borghesia italiana, assumendo un ruolo subordinato, ma questo processo non fu rapido e soprattutto influirono potentemente lo scetticismo e la disillusione patriottica prodotta dalla sconfitta. A questa poi si era aggiunta l’offensiva ideologica del patriottismo risorgimentale che nuovamente aveva interpretato le vicende della Sardegna in funzione della storia d’Italia, cancellando l’impostazione autonoma della questione sarda, sostituendo al mito del popolo sardo quello della latinità e della civiltà italica.

Nelle note La Sardegna di ieri[5], Renzo Laconi ha ripercorso le tappe della storia della Sardegna dai moti antifeudali all’Unità d’Italia proprio per mostrare quanto la questione sarda avesse attraversato un processo di maturazione del tutto particolare rispetto alla Questione meridionale nel suo complesso. Solo con l’Unità i due versanti di rivendicazione si affiancarono, anche se non si determinò poi un unico fronte per l’integrazione delle due Italie, Nord e Sud, perché ricostruendo le battaglie politiche e parlamentari degli ultimi due decenni dell’Ottocento emergerebbe tra i principali esponenti del meridionalismo italiano una percezione della Sardegna come una sorta di «terzo mondo» di cui non si intuivano la collocazione geografica, i confini, le peculiarità storiche, economiche e culturali. La letteratura meridionalista non aveva mostrato alcun interesse per le cose della Sardegna e questo contribuì sicuramente a perpetuare l’isolamento politico e culturale dei sardi nei decenni successivi all’unificazione. I due movimenti di rivendicazione, sardo e meridionale, si svilupparono su strade distinte per tutta la fase conclusiva del XIX secolo e le classi dirigenti meridionaliste territoriali non posero mai le due questioni su uno stesso terreno rivendicativo.

Come anche la composizione della sua biblioteca personale conferma, la prospettiva politica di Laconi è costantemente intrecciata alla riflessione storica, nelle sue riflessioni i due ambiti non sono mai disgiunti da una rigida separazione disciplinare. Tale connessione è evidente nella relazione tenuta al Congresso del Popolo sardo, nell’intervento sul banditismo, così come in gran parte degli interventi di Laconi, tuttavia, il punto massimo d’intreccio emerge nella nota polemica con Emilio Lussu sul «sardismo critico», su cui tornò Giuseppe Podda nel suo ultimo lavoro pubblicato postumo nel 2008 (La nazione mancata. La Sardegna tra autonomia e federalismo nel carteggio Lussu-Laconi) ingiustamente trascurato dai più.

Come sappiamo, essa prende le mosse dal numero monografico della rivista «Il Ponte», dedicato integralmente alla Sardegna[6], e dal confronto tra due diversi modi di concepire la questione sarda in relazione alla storia e alla politica. Anche Laconi aveva contribuito alla stesura del numero con un saggio[7] dedicato ai moti del 1847-48, sfociati nella fusione perfetta, nell’estensione dello Statuto albertino alla Sardegna e dunque nella definitiva soppressione degli antichi istituti autonomistici, quasi a compimento del lento processo di erosione e svuotamento operato dai Savoia sin dal 1720.

Secondo Laconi l’unificazione totale veniva dopo una serie di provvedimenti legislativi tesi a integrare anche economicamente la Sardegna agli Stati continentali. In tal senso la legge delle chiudende e quella sulla proprietà perfetta erano finalizzate a distruggere il sistema feudale suscitando il formarsi una borghesia imprenditoriale di tipo europeo. L’unificazione totale e l’abolizione dell’autonomia rispondevano al tentativo di aprire la Sardegna ai capitali stranieri e inserire l’Isola nei flussi commerciali del tempo. Il nuovo quadro giuridico del regime fondiario costituì così l’amalgama su cui si determinò l’assorbimento delle classi dirigenti sarde da parte di quelle piemontesi e, una volta appagate le loro rivendicazioni storiche sulla proprietà privata, finì per sancire anche la subalternità delle prime alle seconde. Con il compimento di questo percorso storico l’egemonia delle classi dirigenti piemontesi su quelle sarde può dirsi completa. Nella polemica politica e storiografica l’esito di questa operazione è sovente ricondotto a due cause esclusive: il supposto servilismo delle classi dirigenti sarde, il dispotismo accentratore dei governi sabaudi. In realtà questa interpretazione, per quanto contenga forti elementi di verità, risulta insufficiente a spiegare fino in fondo la complessità di un’iniziativa politica che finisce per esercitare la sua forza attrattiva non solo su aristocratici e borghesia ma anche in parti significative dei ceti medi rurali e urbani sardi. Questo processo «egemonico», che porta anche all’assorbimento e quindi all’estinzione degli orientamenti intellettuali ostili al governo piemontese, è invece il risultato di un’operazione politica nella quale forza e consenso si integrano trovando proprio nella riforma del regime fondiario il punto d’intesa decisivo. Allo stesso modo, è stata spesso affermata l’estraneità dei sardi ai processi di trasformazione realizzati, il loro ruolo di «comparse» chiamate in causa al massimo per eseguire passivamente progetti altrui. Questo discorso vale sicuramente per i sardi nel loro complesso, che in gran parte subirono le riforme, tuttavia, le classi dirigenti sarde furono elemento propulsore, ispiratore e decisionale di quel progetto.

I mutamenti intervenuti con l’Unità d’Italia, dunque l’ingresso di popolazioni con condizioni affini di arretramento e miseria nella nuova comunità nazionale, non portarono a un mutamento di prospettive politiche rispetto alle relazioni semicoliniali di sviluppo tra Nord e Sud.

Una impostazione nuova della questione sarda nel quadro della questione meridionale poteva porsi solo con il passaggio dell’iniziativa rivendicativa nelle mani di nuove classi sociali e nella prospettazione di una nuova alleanza progressista capace di imprimere un impulso forte verso la soluzione della questione meridionale fuori dai vecchi equilibri passivi nazionali, edificatisi a partire dall’Unità. Questo iniziò a delinearsi  a cavallo tra i due secoli con l’irrompere del movimento contadino sulla scena politica meridionale e di quello operaio al Nord. Tuttavia, ancora, né la classe operaia settentrionale né il Partito socialista avevano la maturità per delineare una simile prospettiva e ciò per due ragioni: la prima, di ordine politico, era che il Partito socialista ancora nutriva l’illusione di una qualche forma di alleanza con la borghesia del nord, per qualche tempo venutasi a realizzare; la seconda, di ordine culturale, era dovuto al fatto che nel Partito socialista albergava tutta una schiera di studiosi della sociologia antropologica positivista che, sulla scia dei Lombroso, Niceforo, Sergi e Orano, consideravano le condizioni di arretratezza del Mezzogiorno come un fenomeno riconducibile non a cause di ordine socio economico, ma ad una sorta di inferiorità biologica dei meridionali, che ancora non avevano raggiunto il livello evolutivo delle popolazioni settentrionali. Tutto ciò, come Gramsci ha ampiamente spiegato, aveva ripercussioni sulla stessa classe operaia che nutriva un forte sentimento di sfiducia verso le possibilità di rinnovamento della società meridionale.

Per Laconi il superamento delle divisioni all’interno del movimento meridionale, e il mutamento nei confronti di esso da parte del movimento operaio, si ebbe solo con l’opera e il pensiero di Antonio Gramsci, che con la sua analisi riuscì a spingersi, al di là delle diversità storiche, alle comuni radici delle due questioni, proponendo una strategia unitaria delle classi subalterne, di un nuovo «blocco sociale», in grado di disarticolare gli assetti di dominio conservatori e rinnovare il paese attraverso l’irrompere sulla scena politica delle grandi masse popolari.

Quell’intuizione di Gramsci era per Laconi divenuta patrimonio comune non solo del movimento operaio e delle masse contadine socialiste, ma patrimonio culturale dell’Italia intera. Così per Laconi anche la stagione autonomistica sarda del Secondo dopo guerra aveva proprio in Gramsci un punto di svolta irrinunciabile:

L’opera che egli aveva iniziato si è largamente spiegata nella vita politica del paese ed ha determinato il definitivo superamento della fase intellettualistica ed indistinta della questione meridionale, imponendola come uno dei problemi nodali del progresso economico, sociale e culturale dell’intera nazione. Ed anche la nostra Isola ha conquistato l’ordinamento autonomistico essenziale della sua rinascita[8].

Tutto questo aveva contribuito a mantenere aperto sul campo un’esigenza di lavoro comune tutta da costruire, che sarebbe dovuta partire anzitutto da un’azione forte tesa a smuovere gli ambienti intellettuali sardi dal chiuso asfittico dei loro ambienti culturali. Ciò poteva avvenire superando i limiti e le modestie della cultura tradizionale locale e avviando un dibattito serio e approfondito sui problemi di ordine economico, sociale e culturale che angustiavano la Sardegna, per trovare attraverso il dialogo con il mondo meridionale un terreno comune di progresso sociale e civile.

Durante i lavori della Costituente, Palmiro Togliatti consegnò a due giovani deputati, Renzo Laconi e Nilde Iotti un plico di carte da visionare, si trattava delle bozze alla prima edizione delle Lettere del carcere. In una di queste, destinata a Tania nel maggio 1932, Gramsci scrisse di se come «un sardo senza complicazioni psicologiche».[9] Questa sua definizione autobiografica potrebbe essere bene utilizzata per parlare anche di Renzo Laconi e descrivere il suo sforzo politico intellettuale: far interagire l’aspirazione alla rinascita economico-sociale della Sardegna con il più complessivo processo di «riforma intellettuale e morale» avviato in Italia con la lotta di liberazione nazionale e il varo della Costituzione repubblicana. In tal senso Laconi ha vissuto il suo legame con la Sardegna senza alcun feticismo, così le questioni sarde mai furono secondarie o distinte rispetto ai grandi temi della politica nazionale e internazionale, la sua intera attività politica e produzione intellettuale, di cui in questo importante convegno si è parlato per due giorni, ne è una testimonianza.

 

* La foto utilizzata è dell’archivio storico-fotografico “Giuseppe Podda”.

[1] Gli strumenti della politica. Catalogo della biblioteca di Renzo Laconi. Aìsara edizioni Cagliari, 2007.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975.

[3] G. Fresu, La prima bardana. Modernità e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento.

[4] Renzo Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967). EDES, Cagliari, 1988.

[5] L’opera, seppur nel suo carattere frammentario, viene pubblicata postuma con il titolo La Sardegna di ieri e di oggi grazie al lavoro di Umberto Cardia, che dopo aver lavorato per anni nello stesso partito a stretto contatto di gomito con Laconi curò la pubblicazioni di queste note. Prima di addentrarci in esse, una tappa intermedia essenziale è contenuta nel saggio Questione sarda e questione meridionale, pubblicato su «Rinascita Sarda» nel 1957. R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967), Edes, Cagliari, 1988.

 

[6] Questo numero costituiva sicuramente un’opera pregevole, composta di più di cinquecento pagine e oltre sessanta saggi, capace di fornire informazioni preziose sull’Isola e una trattazione sufficientemente adeguata delle realtà sociali e culturali operanti nella Sardegna di quegli anni.

[7] L’autonomia regionale strumento di rinascita, «Il Ponte», a. VII, n. 9-10, settembre 1951.

[8] R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi, cit. pag. 314

[9] «Ma io sono un sardo senza complicazioni psicologiche e mi costa una certa fatica comprendere le complicazioni degli altri». Cfr. Lettera a Tania, 1 maggio 1932. In Lettere 1926 -1935, Antonio Gramsci – Tatiana Schucht, Einaudi, Torino 1997. pag. 1007.

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.