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Moderati e democratici nel Risorgimento italiano: l’interpretazione di Gramsci

Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia

Convegno

RISORGIMENTO: STORIA E DIDATTICA

28-29 settembre 2006 oristano

 

 

Gianni Fresu

 

Moderati e democratici nel Risorgimento italiano: l’interpretazione di Gramsci

 

In sede storiografica il tema risorgimentale ha dato luogo ad una mole imponente di studi, convegni, pubblicazioni, che ha pochi paragoni con altre pagine della storia moderna e contemporanea italiana, ma soprattutto ha determinato letture profondamente diverse tra gli orientamenti filosofici e politici che, in vario modo e a vario titolo, si sono rapportati ad esso. Differenze, spesso palesatesi anche all’interno dello stesso campo ideologico, che divengono particolarmente acute in rapporto alla valutazione su funzione e incisività delle due componenti che, a varo titolo e modo, si pongono oggettivamente come le più rappresentative del liberalismo risorgimentale italiano: quella dei moderati e quella dei democratici. La dialettica tra queste due correnti storiche segna in particolare le riflessioni sul Risorgimento di Antonio Gramsci, che in esse legge il codice genetico della società politica italiana, così come cattura l’attenzione di tante altre firme di primissimo piano nella storiografia italiana ed internazionale tra Ottocento e Novecento.

 

* * *

Per uno dei più importanti storici italiani del pensiero liberale come Guido de Ruggiero la prima considerazione da fare in ordine al liberalismo italiano è che esso ha una importanza modesta rispetto alle principali correnti storiche del movimento europeo, ponendosi in larga parte come un semplice riflesso di dottrine e indirizzi stranieri.

Opinione condivisa questa anche da Arturo Carlo Jemolo, il quale in più riprese sottolinea come il liberalismo moderno, fondato (pur nelle sue molteplici accezioni) sull’idea di uno Stato nazionale con un ordinamento costituzionale e un governo legittimato da una maggioranza parlamentare, non ebbe nel movimento intellettuale in Italia – almeno fino a Cavour – alcun grande teorizzatore. I suoi uomini, scrive Jemolo, furono piuttosto apostoli dell’idea, missionari o realizzatori1.

Le ragioni di questa limitata importanza sono riconducibili a fattori molteplici: il frazionamento politico che ha impedito la formazione di grandi correnti di opinione pubblica, segregando ogni sviluppo nell’angustia e nella rivalità di piccole fazioni regionali se non comunali; l’asservimento di tanta parte del territorio italiano a potenze straniere, che ha portato a concentrare le migliori energie nella lotta per l’emancipazione nazionale, ma anche alla confusione concettuale tra indipendenza e libertà; lo spirito della controriforma che aveva mortificato il sentimento individualistico premessa essenziale del liberalismo moderno; la natura letteraria e libresca di una cultura ridotta a «polverosa erudizione separata da tutti gli interessi vitali del presente»; ma soprattutto, l’arretratezza economica che ha ritardato il differenziamento sociale delle classi e la formazione di un largo ceto medio.

Della sclerotica arretratezza dei rapporti sociali di produzione De Ruggiero fa una trattazione storica ampia e particolareggiata; interessante notare che tra i fattori economico-sociali che hanno limitato le potenzialità del liberalismo italiano c’è anche il fatto che il feudalesimo, da un punto di vista politico, non ha mai rappresentato un peso determinante in Italia, sia per il rapido comparire di Comuni e Signorie, sia per il successivo dominio di potenze straniere, sia per la tradizione del diritto romano: in Italia [scrive De Ruggiero] la tradizione del diritto romano non si è mai del tutto spenta, fin dal più remoto Medio Evo, e la sua persistenza ha efficacemente contrastato l’esclusivo dominio del diritto feudale, (…) ha ostacolato la formazione di un troppo esclusivo diritto privilegiato, favorendo così le libertà civili degli individui. Ma nel medesimo tempo, essendo un diritto di sudditi, di uomini eguali nella soggezione, ha, con la sua influenza, impedito che si radicasse nella coscienza del popolo l’idea di un diritto proprio ed originario, indipendente dallo stato, ed anzi opposto al diritto del principe. È venuta così a mancare agli italiani la vitale esperienza dell’antitesi tra il popolo e il principe, che altrove ha giovato a creare il senso e l’amore delle libertà politiche2. È da quest’antitesi che è sorta, in alcuni paesi europei, la prima palestra del liberalismo politico, vale a dire, Diete, Stati generali, Parlamenti, invece estranei alla tradizione italiana.

Il movimento intellettuale del Risorgimento ha una importanza assai grande nella storia d’Italia, precorrendone l’unificazione politica, tuttavia, secondo il grande storico del pensiero liberale, esso è stato elevato ad una importanza europea, che in realtà non aveva, da parte dei suoi protagonisti, epigoni ed esegeti, generando equivoci e illusioni destinate fatalmente a svelarsi nel 1848. La ragione di questa sproporzione autorappresentativa è attribuita alla tradizione letteraria che per De Ruggiero, come per Antonio Gramsci, è l’unico elemento che si pone con continuità nella vita nazionale attraverso i secoli, nell’assenza di una unità nazionale politica.

Dopo la sua fine, il Primato di civiltà e scienza propri dell’Umanesimo e del Rinascimento, si è convertito in un «primato di ricordi». L’idea dell’autosufficienza, tipica della cultura letteraria italiana, si è alimentata di un mondo immaginario nel quale l’idea di quel primato ha continuato a sussistere pur essendo morto e sepolto da secoli, così come a sua volta in quel «sopramondo fittizio» si è formata l’idea di una unità politica nazionale di fatto (dolosamente confusa con l’unità della cultura nazionale) nella storia d’Italia, dando luogo a quella che Gramsci – come vedremo più in dettaglio poi – ha definito «storia feticistica».

L’angustia di questa dimensione culturale, convinta di possedere tutti gli elementi per bastare a sé, ha reso ancora più difficoltoso l’inserimento delle correnti intellettuali italiane nel clima generale della cultura europea: anche quando l’influsso straniero s’è fatto predominante come nei secoli XVIII e XIX, l’incancellabile boria nazionale ha cercato diminuirne l’importanza o di peggiorarne il significato, con quei raffronti, quei paralleli e quelle antitesi, che formano la parte più stucchevole della letteratura patriottica italiana3.

In tal senso per De Ruggiero l’opera di Gioberti si giustifica perfettamente ed appare importante se la si considera all’interno di quel quadro nazionale, mentre risulta «goffa e stonata» se la si inserisce in un ambito più generale ed europeo. Di questa autosufficienza politico-cuturale italiana, di questo suo «primato morale e civile», Vincenzo Gioberti fa manifesto nella sua più celebre opera:

 

«l’Italia ha in sé tutte le condizioni del suo nazionale e politico risorgimento, senza ricorrere alle sommosse intestine, alle imitazioni e invazioni forestiere. (…) L’Italia contiene in sé medesima, soprattutto per via della religione, tutte le condizioni richieste al suo nazionale e politico risorgimento, e che per darvi opera in effetto non ha d’uopo di rivoluzioni interne, né tampoco d’invasioni o di imitazioni forestiere»4.

 

Lo stesso giudizio «spassionato» è espresso per il Risorgimento nel suo complesso che riprodurrebbe, in grande, la stessa impressione. De Ruggiero è durissimo nel suo giudizio sul provincialismo che circonda la cultura italiana in rapporto al suo Risorgimento, a suo dire essa ha assunto l’atteggiamento dei «signori decaduti» inorgogliti del proprio stato, chiusi nel proprio isolamento. De Ruggiero parla in proposito di un «falso pudore patriottico» che ha demotivato ogni coraggio impedendo di guardare oltre il proprio recinto e fare i conti con i propri limiti, ciò in ultima analisi ha non solo viziato alcune manifestazioni della coscienza nazionale del Risorgimento, ma ha mistificato il giudizio delle generazioni successive su esso, esso è stato circondato da un alone di retorica; sottratto ad ogni sincera valutazione critica anche quando ha formato oggetto di studio e di curiosità erudita; e le sue manifestazioni intellettuali sono state tanto più ammirate ed esaltate, quanto meno conosciute nella loro vera realtà5. La dimostrazione di ciò si avrebbe nella semplice constatazione che in un secolo ricco di fermenti e scambi intellettuali come l’Ottocento nessuna delle opere risorgimentali ha avuto una risonanza europea, così come nessuna di esse è divenuta familiare agli stessi italiani. «E basta, per rendersene conto [aggiunge De Ruggiero], aprire i libri dei Rosmini, dei Gioberti, dei Mazzini, dei Balbo, dei d’Azeglio, dei Tommaseo, per avvertire un certo sentore di chiuso, come di muffa letteraria, che tradisce l’angustia dell’ambiente nazionale».

Ben diversa la lettura del Risorgimento e del suo movimento intellettuale fatta da un altro grande storico e pubblicista italiano, questa volta di orientamento azionista, come Luigi Salvatorelli. Egli anzitutto nega risolutamente la cosiddetta tesi «modernista» che tende a rappresentare il Risorgimento italiano come una semplice conquista sabauda, per cui esso si ridurrebbe alla costituzione politico territoriale del regno d’Italia fra il 1859 e il 70. Questa tesi, sorretta dalla premessa che l’unità d’Italia sarebbe lo sbocco naturale dello sviluppo e della modernizzazione del Piemonte6, è per lo storico affetta sul piano filosofico da un vizio di positivismo materialistico che, nel ridurre il Risorgimento a semplice atto d’imperio dei Re di Sardegna, nega «l’elemento nazionale, popolare, spirituale», e non spiega e non attribuisce alcun ruolo a episodi risorgimentali come la rivoluzione napoletana del 1820 e quella dell’Italia centrale nel 1831, o come i moti di Romagna fra il 1840 e il 1846. Oltre a ciò, per essa, tutta l’azione repubblicana del mazzinianesimo si porrebbe nei fatti come Antirisorgimento, così come i moti riformistici che precedettero il 1848, nei fatti, ne resterebbero fuori. In realtà Salvatorelli sottolinea come da Gioberti a Carducci, da Mazzini a Cavour, tutti i grandi protagonisti hanno inteso il Risorgimento italiano come una profonda e complessiva trasformazione della vita nazionale, un’affermazione di autonomia nazionale e individuale che attraversa non solo il suo periodo d’oro ma ben due secoli. Anch’egli riconosce che l’espressione Risorgimento ha avuto prima – e per lungo tempo – solo un significato letterario-culturale per poi assumerne uno politico-territoriale ben più determinato, ma gli attribuisce un valore di coscienza e attività spirituale che va ben oltre la pur importante funzione del Regno di Sardegna7.

È il termine in sé che metterebbe fuori causa un’interpretazione semplicemente territoriale e materialistica, perché nel Ri-sorgimento il riferimento ideale è a qualcosa che c’è stata e che non c’è più, che ha cessato la sua esistenza e torna ad esistere. Resta il fatto però – riconosciuto anche da Salvatorelli – che prima del 1861 quella tanto agognata unità politico territoriale, dello e nello Stato italiano, non era mai storicamente esistita. Coloro che dalla fine del Settecento in poi invocano il Risorgimento per il futuro dell’Italia volgono le spalle al passato nella ricerca di quella unità da Ri-acciuffare. Questo per Salvatorelli ha semplicemente una funzione positiva di esempio e stimolo per l’azione, mentre per altri (come Gramsci e lo stesso De Ruggiero) porta alla mistificazione della storia d’Italia che viene dolosamente popolata da figure mitologiche quanto illusorie. È da questi due modi di intendere il Risorgimento che nasce la valutazione profondamente diversa dell’idea della Terza Roma presente nella retorica di Mazzini, della trama unitaria nella storia d’Italia di Balbo, del Primato morale e civile dell’Italia di cui parla Gioberti.

Anche Salvatorelli ammette che in queste concezioni fossero presenti esagerazioni, confusioni e illusioni, tuttavia non riconoscerne il valore, profondamente positivo, equivarrebbe a “gettare il bambino con l’acqua sporca”, rifiutare insieme agli errori anche quegli elementi essenziali che hanno svolto una funzione propulsiva e catalizzatrice per le idee e l’azione: che questa convinzione sia stata una forza operante del Risorgimento è indubbio; e se anche si volesse chiamarla mito, converrebbe ugualmente tenerne conto appunto perché il Risorgimento non è puro fatto esteriore, ma creazione spirituale. Sarebbe sempre la storia passata d’Italia, che, attraverso l’interpretazione mitica, avrebbe agito a preparare la futura8. Sulla scorta di queste considerazioni Salvatorelli rifiuta l’interpretazione «modernista» del Risorgimento secondo la quale esso, nel suo processo e nel suo risultato, non sarebbe altro che la fondazione di qualcosa che prima non c’era mai stata, in altre parole: «la storia d’Italia non comincia con il Risorgimento; il Risorgimento bensì è un periodo di questa storia».

La classe dirigente del Risorgimento che viene descritta invece nella Storia del liberalismo europeo ha molti punti di convergenza con i «volontari della nazione» di cui parlerà Gramsci nei Quaderni, vale a dire una ristretta élite autoselezionatasi da diverse parti d’Italia attorno a valori morali altissimi, ma che tennero ben distante la partecipazione delle masse popolari, rimaste sostanzialmente indifferenti verso i problemi dell’unità, della libertà e dell’indipendenza. A questa dimensione esclusivamente etica e letteraria, e alla sua claustrofobica dimensione provinciale, era così riconducibile gran parte dell’approccio politico della classe dirigente risorgimentale.

Il partito moderato era in realtà un non-partito, vale a dire una corrente priva di organizzazione e statuto, attorno al quale si andò coagulando il consenso di fasce sociali molto omogenee sul piano dei rapporti di produzione e per cultura. Esso aborriva l’idea stessa del partito, definito da Rosmini il verme che corrode la società, per la semplice ragione che esso non solo non si poneva il problema del proselitismo tra le masse, ma perché non aveva nessuna volontà di coinvolge queste nei processi politico-sociali dell’unificazione. De Ruggiero ricorda come per Gioberti il popolo fosse un non-ente, un corpo inerte ed informe plasmabile a proprio piacimento, coerentemente con questa concezione era ai moderati totalmente estranea qualsiasi ipotesi democratica di autogoverno popolare. L’azione e l’opera di proselitismo dei moderati è indirizzata dunque solo ai rappresentanti del proprio ceto e ai principi degli stati italiani, cui è attribuita la funzione dell’iniziativa. Nel complesso l’ideale politico dei moderati è più vicino al liberalismo semifeudale inglese del Settecento, di quanto non lo fosse al liberalismo moderno. L’assoluta indisponibilità ad un coinvolgimento del cosiddetto popolo ha due conseguenze: una politica, che consiste nel costante terrore del risveglio popolare, della rivendicazione delle libertà, che spinge i moderati su posizioni di rigido difensivismo; una filosofica, che consiste nella paura della ragione, o se si preferisce del razionalismo. Contro l’effetto dirompente dei due termini, libertà-razionalismo, la classe dirigente italiana, come quella del resto d’Europa, cerca una diga nella restaurazione e dunque nel valore stabilizzatore della religione. In Italia ciò porta ad individuare proprio nella Chiesa cattolica un istituto schiettamente nazionale, non rendendosi conto della natura storicamente cosmopolita della stessa, e a cercare una conciliazione impossibile tra i valori del criticismo e del dogmatismo, l’aspirazione all’unificazione politica d’Italia e la centralità della Chiesa come autorità politica. Questa contraddizione è riconducibile al fatto che l’Italia avesse vissuto solo di riflesso tanto la rivoluzione quanto la controrivoluzione romantica. Dei due termini della contraddizione giunge solo un surrogato confuso che da luogo ad una bizzarra combinazione eclettica:

 

«è parsa impresa facile spogliare il cattolicismo della sua veste reazionaria e privare il razionalismo liberale del suo fermento rivoluzionario per pacificarli insieme. È venuta così fuori l’idea, che campeggia nella infelice rivoluzione del 1848, di un risorgimento liberale imperniato sul Papa (…) salvare insieme l’antico e il nuovo, i principi e l’unità nazionale, il cattolicismo e il razionalismo, l’assolutismo illuminato e la libertà. Ciò che, espresso in termini brutali, significa voler fare una omelette senza rompere le uova»9.

 

È in questa palese contraddizione che si dibatterebbe l’orizzonte politico del Primato di Gioberti, è su questi limiti che si sarebbe alimentata la pretesa fallace di fare del Papa, in quanto principe temporale, il centro di una tradizione italiana a cui sarebbe spettata l’iniziativa dell’unificazione politica. Il successo di una simile posizione presso i moderati è una prova ulteriore dei limiti di questo partito conservatore, ma, fatalmente inserito in una situazione rivoluzionaria.

Ma a fianco e contro questa forte componente moderata si sono sviluppate sia singole personalità che hanno espresso accenti diversi ed originali, come quella di Giacomo Durando che contrappone alle tentazioni neoguelfe di Gioberti la tradizione ghibellina, sia orientamenti decisamente più moderni e inseriti nel flusso della storia europea. De Ruggiero si riferisce all’indirizzo economico della corrente liberale italiana che si rifà all’economia classica trovando radicandola nei fermenti dell’Italia settentrionale. La dottrina del liberalismo che si fonde con i fermenti dell’Italia settentrionale e trova ispirazione nelle correnti del liberismo inglese, offrendo alle forze produttive dell’Alta Italia la prospettiva della parte del leone nel più ampio mercato italiano. Dunque la libertà, intesa anzitutto nel suo significato economico, come nuovo elemento dell’unificazione nazionale, attraverso la modernizzazione della borghesia agraria e industriale. È in questa scuola che si forma Cavour, per De Ruggiero il solo uomo veramente europeo del Risorgimento italiano, nella cui cultura è totalmente estranea quella muffa letteraria e quel gretto provincialismo che invece veniva rimproverato alla sonnolenta intellettualità moderata. Anche Jemolo sottolinea la funzione di vero artefice dell’unificazione nazionale svolta da Cavuor, al quale si deve anche la matrice dell’assetto costituzionale, amministrativo e della legislazione ecclesiastica che plasmò il Regno d’Italia. Di Cavour Jemolo mette in luce i rapporti e il legami internazionali (francesi ed inglesi), l’equilibrio nell’approccio al liberalismo, la competenza nell’economia e nell’amministrazione. Sul versante religioso Cavuor è indicato come un razionalista, che probabilmente si proclama cattolico più per ragioni politiche che per convinzione interiore, sicuro assertore dell’esigenza della modernizzazione e laicizzazione degli istituti fondamentali della vita civile in base al principio “libera Chiesa in libero Stato”. Cavour secondo Jemolo ebbe il merito storico di saper resistere alle pressioni dei giacobini da una parte e dei clericali dall’altra, rifiutando tanto le pretese d’intromissione ecclesiastica negli affari istituzionali, quanto misure limitative delle libertà religiosa.

La cultura scientifica di Cavour, la sua formazione nel liberalismo manchesteriano, lo portano a percepire le potenzialità di espansione della società industriale moderna, pur in un contesto come quello Italiano nel quale essa era ancora di là da venire, e ad imperniare su di essa il processo di unificazione nazionale. Attraverso l’opera di Cavour si percepisce per la prima volta nella storia d’Italia lo spirito dello Stato liberale moderno, «Cavour impersona in sé eminentemente questo stato e quest’arte liberale di governo».

Se di Cavour vengono messe in luce la straordinaria modernità, la prospettiva europea, la cultura scientifica che pone in connessione la modernizzazione del nord Italia con le dottrine economiche più avanzate del liberalismo, e attraverso questa via trova un percorso concreto per le prospettive risorgimentali, di Mazzini Storia del liberalismo europeo, pone in evidenza l’astrattezza mistica e la profonda distanza tra i motivi ispiratori della sua dottrina e la concreta realtà italiana. Così i lunghi anni di esilio impedirono a Mazzini di prendere concreta coscienza di cosa fosse quel popolo al quale erano rivolti i suoi proclami. Otre a ciò i punti di riferimento religiosi, politici ed economico sociali della predicazione di Mazzini, le sue riflessioni e i suoi proclami riguardavano molto più da vicino la storia di Inghilterra e Francia che non l’Italia. Il misticismo politico-religioso di Mazzini scaturisce dalla tradizione di Lamennais e dalla tradizione sansimoniana, trae origine dalla matrice storica della riforma che era invece totalmente estranea all’Italia, paese della Controriforma per eccellenza. È così che il classico binomio dottrinale «Dio e popolo» di Mazzini non suscita alcun entusiasmo o anche solo senso di immedesimazione nello spirito popolare in Italia e rimane circoscritto alle esigue avanguardie del volontarismo democratico.

Gli anatemi di Mazzini contro lo spirito individualistico anarchico e materialistico della scuola liberale si spiegava benissimo con gli orientamenti sansimoniani, le opere di Sismondi, di Owen, Fourier, si spiegava benissimo con la concreta realtà sociale dell’Inghilterra industriale dell’Ottocento – dove quello spirito individualistico del libero mercato aveva generato contrasti sociali enormi e condizioni di miseria e sfruttamento immani per la sua classe operaia. Ma accanirsi contro l’individualismo liberale in un paese come l’Italia ancora irretito da tradizioni di cultura costumi feudali, dove la rivoluzione industriale era ben lontana dal profilarsi, era un non senso, significava parlare all’Italia guardando all’Inghilterra: che cosa poteva significare in Italia, l’associazionismo che il Mazzini vedeva sorgere sulle rovine di una libertà anarchica e spietata, che gli italiani non conoscevano neppure? Quali uomini erano da associare in un paese agricolo dall’agricoltura semi feudale?10.

Di tutt’altro avviso Luigi Salvatorelli, curatore naturale delle Opere di Mazzini, per affinità di cultura politica e concezione intellettuale, per il quale il capo storico del Partito d’azione è il protagonista assoluto del Risorgimento italiano, colui che più di ogni altro nella propaganda risorgimentale ha saputo lanciare fili, tessere trame, eccitato tanti spiriti, formato e tenuto assieme tanti nuclei di azione, fatto appello a tanti ambienti diversi, posto mano a tanti strumenti differenti; e, più in breve, speso tutta la sua intelligenza, tutte le sue energie, ogni suo respiro per la causa dell’Italia e dell’umanità11.

Salvatorelli di Mazzini pone in luce la critica all’individualismo utilitaristico del movimento carbonaro, incapace di vedere i temi della nazione e del popolo, critica estesa a tutto il movimento liberale. Per Mazzini infatti popolo, nazione e libertà sono termini strettamente intrecciati ed inscindibili. Mazzini rinnega ogni concezione della società come pura sommatoria di individui ponendo in rilievo la natura organica dell’idea di patria, sostanziata dai concetti di iniziativa popolare e autogoverno nazionale. In questo concetto organico e dinamico della nazione italiana come autocreazione popolare è uno dei massimi apporti di Mazzini al processo del Risorgimento, ideale e pratico: da esso scaturisce il binomio mazziniano pensiero e azione, che era necessario a formare una vera coscienza nazionale12. Nell’opera di Mazzini passato, presente e futuro dell’Italia si saldano in un concetto suggestivo quanto vago, quello di «missione nazionale», che individuerebbe per ogni nazione una missione speciale da compiere nella storia che però egli non spiega mai in concreto. Per l’Italia l’unica missione rintracciabile è appunto quella della Re-surrezione nazionale, intesa come valore spirituale e religioso, che venga a materializzare in via politica e territoriale una tradizione storica e una «vita morale» che unisce tutti gli italiani. In questa missione di unità morale Mazzini individua un compito speciale a quella che lui stesso definisce «educazione nazionale», la quale deve sottrarre ogni singolo individuo al suo isolamento per renderlo partecipe dello spirito e dei destini della patria sua. Un concetto questo che, sebbene epurato dei riferimenti alla libertà, all’autogoverno popolare, alla concordia dei popoli, essenziali nella concezione di Mazzini, troverà un seguito molto significativo nella tradizione – foriera di disastri – del nazionalismo e dell’arditismo. Non a caso Benito Mussolini, con evidente strumentalità, negli anni della Repubblica Sociale più volte si richiamerà alla tradizione mazziniana indicandola quasi come una premessa ideale del fascismo.

Per Salvatorelli Mazzini incarna «la concezione più integrale del Risorgimento», quella che più di ogni altra ha saputo integrare il pensiero con l’azione:

 

«Se al popolo italiano occorreva per il suo risorgimento superare definitivamente le bassure spirituali a cui lo aveva condotto la decadenza secolare successiva al Rinascimento, la spinta morale a quel superamento gli venne principalmente dall’afflatto mistico mazziniano»13.

 

Ma nonostante questo grande riconoscimento, anche Luigi Salvatorelli non può nascondere che il misticismo e il dogmatismo trascendente fossero stati insieme i limiti maggiori del mazzinianesimo, che in qualche modo ne circoscrissero l’efficacia scontrandosi con l’umanesimo razionalista del radicalismo democratico e con il realismo empirista del liberalismo moderato. Il limite maggiore del pensiero di Mazzini è forse riconducibile al clima culturale romantico in cui si forma e al quale rimane legato per il resto della sua esistenza, ma anche alla poca conoscenza delle risultanti più significative della tradizione filosofica di fine Settecento, che invece accomunavano maggiormente e correnti radicali e moderate, unite nell’ostilità al misticismo mazziniano. In questo senso forse la critica di De Ruggiero al provincialismo culturale di Mazzini, esule nella patria del liberalismo moderno nella sua fase storica di massima espansione, eppure così distante dal suo movimento culturale, sembra cogliere nel segno.

La democrazia di Mazzini era totalmente al di fuori della realtà italiana, scrive De Ruggiero, era una predicazione piena di doveri morali e retorici che spaziavano esclusivamente nel campo del dover essere senza fare alcuna presa sull’essere. Mazzini Parlava al popolo, ma un popolo immaginario, puramente retorico, non alle sterminate masse dei contadini senza terra delle campagne italiane. La conferma si ha con l’orrore provato da Mazzini e dai suoi seguaci di fronte alla rivoluzione agraria nel mezzogiorno che porta all’occupazione delle terre nel fatidico 48, rivoluzione lasciata in balia di sé stessa dai democratici che non vollero sfruttare quei fatti dirompenti, e la concomitante crisi dei moderati, lasciando di fatto mano libera alla restaurazione. Un’idea di democrazia intesa come organizzazione popolare autonoma si materializza solo con la nascita del movimento socialista, che per la prima volta riesce creare un rapporto organico con le masse, scuotendole dall’apatia e dalla subalternità nelle quali erano relegate e ponendo nell’agenda della politica le questioni sociali, largamente eluse da Mazzini al di là delle petizioni di principio e dagli slanci retorici che gli sono noti.

Di quest’insufficienza del Partito d’Azione, timoroso e riluttante a coinvolgere realmente le masse popolari nel processo risorgimentale, da conto in più riprese anche lo stesso Karl Marx che in un articolo comparso sul «New York Daily Tribune» nell’aprile 1853 scrive:

 

«Ora, è un gran progresso per il partito mazziniano l’essersi finalmente convinto che, persino nel caso di insurrezioni nazionali contro il dispotismo straniero, esistono quelle che si è soliti chiamare differenze di classe, e che nei moti rivoluzionari, ai giorni nostri, non è alle classi superiori che si deve guardare. Forse i mazziniani faranno un altro passo avanti e arriveranno a capire che devono occuparsi seriamente delle condizioni materiali della popolazione delle campagne se vogliono che il loro Dio e Popolo abbia un’eco. (…) le condizioni materiali in cui si trova la maggior parte della popolazione rurale, l’ hanno resa se non reazionaria almeno indifferente alla lotta nazionale d’Italia»14.

 

Ancora, nell’articolo Mazzini e Napoleone dell’11 maggio 1858, Marx rimprovera i mazziniani di restare totalmente ripiegati sulle forme politiche dello Stato (Repubblica contro Monarchia), senza degnare di uno sguardo l’organizzazione sociale su cui poggia la superstruttura politica:

 

«fieri del loro falso idealismo, essi hanno considerato al di sotto della loro dignità il prender coscienza della realtà economica. Niente è più facile che essere idealisti per conto d’altri. Un uomo rimpinzato può farsi beffe del materialismo degli affamati che chiedono un volgare pezzo di pane invece di idee sublimi. I triunviri della Repubblica romana del 1848, che lasciarono i contadini della Campagna romana in uno stato di schiavitù più esasperante di quello dei loro antenati della Roma imperiale, non ci pensavano due volte quando si trattava di dissertare sulla degradazione della mentalità rurale»15.

 

La democrazia mazziniana, il partito d’azione, si riduceva dunque all’azione agitatoria e cospirativa, al colpo di piazza dei «volontari della nazione», senza però poggiare – a differenza dei movimenti democratici in Germania, Inghilterra, Francia – su alcuna classe sociale storica concreta. Un’idea di democrazia dove non c’è nulla di organico e permanente che permanga all’istantanea esplosione del gesto rivoluzionario. Eppure, ciò nonostante, una funzione positiva la tradizione democratica mazziniana l’ha svolta, conducendo forzosamente l’esitante mondo dei moderati sul terreno dell’azione risorgimentale. Il successo dell’azione democratica è affidato alla saggezza dei moderati, che riesce a dare un inquadramento statale e conservatore alle conquiste della piazza. Ecco così spiegato l’apparente paradosso per cui l’Italia, fatta dai così detti democratici, è organizzata anche contro di essi dai partiti d’ordine16.

 

* * *

 

Il tema dell’egemonia moderata sul partito d’azione è uno degli aspetti che maggiormente contraddistingue l’analisi sul Risorgimento che Antonio Gramsci dedica nei Quaderni, contribuendo a definire alcune categorie centrali dell’opera gramsciana in rapporto alla funzione degli intellettuali nella definizione degli assetti di egemonia e dominio di una società17.

Scrive Gramsci che nel corso del Risorgimento gli intellettuali del Partito d’Azione hanno assunto un atteggiamento paternalistico nei confronti delle masse popolari, alle quali non hanno voluto legarsi, e perciò sono stati assorbiti ed incorporati «molecolarmente» dai moderati. Il fenomeno tutto italiano del «trasformismo» trae origine dunque da questa dinamica tra gli intellettuali e le due classi sociali fondamentali e in esso s’inscrive il problema generale della formazione dei gruppi dirigenti borghesi nazionali, dunque il tema del completo fallimento delle prospettive democratiche del Partito d’Azione, incapace di porre in tutta la sua vastità la questione agraria, che costituiva per Gramsci la sola «molla» capace di far entrare in moto le masse popolari18.

Questo concetto è spiegato, con grande prova di sintesi, in alcuni passi di una lettera scritta da Gramsci a Tania Shucht nel giugno 1932:

 

«Se studi tutta la storia italiana dal 1815 in poi, vedi che un piccolo gruppo dirigente è riuscito metodicamente ad assorbire nel suo circolo tutto il personale politico che i movimenti di massa, di origine sovversiva, esprimevano. Dal 60 al 76 il Partito d’Azione, fu assorbito dalla monarchia, lasciando un residuo insignificante che continuò a vivere come Partito Repubblicano ma aveva più un significato folcloristico che storico-politico. Il fenomeno fu detto del trasformismo ma non si trattava di un fenomeno isolato; era un processo organico che sostituiva nella formazione dirigente, ciò che in Francia era avvenuto nella rivoluzione e con Napoleone, e in Inghilterra con Cromwell. Infatti, anche dopo il 1876 il processo continua, molecolarmente. Assume una portata imponente nel dopoguerra, quando pare che il gruppo dirigente tradizionale non sia in grado di assimilare e dirigere le nuove forze espresse dagli avvenimenti. Ma questo gruppo dirigente è più malin e capace di quanto si poteva pensare: l’assorbimento è difficile e gravoso, ma avviene nonostante tutto, per molte vie e con metodi diversi. L’attività del Croce è una di queste vie e di questi metodi; il suo insegnamento produce la maggior quantità di «succhi gastrici» atti all’opera di digestione. Collocata in una prospettiva storica, della storia italiana, naturalmente, l’operosità del Croce appare come la più potente macchina per conformare le nuove forze vitali che il gruppo dominante oggi possiede…» 19.

 

Una classe dominante è tale per Gramsci quando riesce ad essere dirigente delle classi alleate e dominante di quelle nemiche o avversarie; in virtù di questo la classe dominante deve essere dirigente sia prima che dopo la presa del potere. Così i moderati hanno esercitato questa direzione sul Partito d’Azione nel corso del Risorgimento, ma lo hanno fatto anche dopo con il «trasformismo», e proprio grazie alla capacità dei moderati ad esercitare un’egemonia politica sugli azionisti il Risorgimento ha preso le forme di «una rivoluzione senza rivoluzione».

 

«Tutta la politica italiana dal 70 a oggi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche da quelle nemiche. La direzione politica diventa un aspetto del dominio, in quanto l’assorbimento delle élites delle classi nemiche porta alla decapitazione di queste e alla loro impotenza»20.

 

I moderati rappresentavano per Gramsci una classe sociale relativamente omogenea soggetta a poche oscillazioni, mentre il Partito d’Azione non poggiando su nessuna classe storica finiva per subire costantemente la direzione dei moderati. Gli intellettuali del fronte moderato erano realmente espressione organica delle classi alte, e perciò erano al contempo intellettuali, organizzatori-politici, imprenditori, grandi proprietari terrieri, cioè appartenevano realmente a quelle classi ed individualmente riuscivano ad unire l’identità del rappresentato con quella del rappresentante. Proprio per questa loro natura «condensata» gli intellettuali moderati seppero esercitare un’attrazione spontanea su tutta la massa degli intellettuali in Italia. Questa dinamica rilevata nella Storia del Risorgimento, conferma una sorta di regola storico politica estremamente importante poi sviluppata in dettaglio nei Quaderni: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni classe ha i suoi propri intellettuali organici, tuttavia, la classe che riesce ad assumere un ruolo propulsivo e progressivo finisce per esercitare un’egemonia tale da subordinare a sé anche gli intellettuali delle altre classi, tanto da creare una «solidarietà di tutti gli intellettuali con legami di carattere psicologico e spesso di casta».

Il Partito d’Azione non poteva esercitare questo potere di attrazione ma subiva quello dei moderati, e l’unico modo che esso aveva per divenire una forza indipendente, con una sua fisionomia, era incorporare nel proprio programma le rivendicazioni delle masse popolari, prime tra tutte quelle contadine, vale a dire contrapporre all’«attrazione empirica» dei moderati un’«attrazione organizzata» attraverso un programma organico di governo capace di mettere in gioco le masse popolari. Ma il Partito d’Azione non ebbe mai un programma di governo e non seppe esprimere una direzione politica neanche tra i suoi stessi esponenti, si limitò ad essere niente altro che un movimento di agitazione e propaganda dei moderati, che seguì la tradizione retorica della letteratura italiana confondendo l’unità culturale con l’unità politica e territoriale.

Per la mancata partecipazione delle masse al processo risorgimentale, per la mancata formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, e dunque per lo svilupparsi delle dinamiche politiche esclusivamente all’interno di ristrette élites, il Risorgimento assume come processo storico un valore paradigmatico. Così ad esempio tutta l’analisi del passato d’Italia, dall’epoca romana a quella risorgimentale e post-unitaria, nella storiografia italiana, è volta a trovare nel passato una unità nazionale di fatto, quindi a giustificare il presente con il passato storico. Questa operazione ideologica è dovuta alla necessità di fanatizzare i «volontari della nazione», con le glorie presunte della storia d’Italia, compensando in questo modo le manchevolezze e i limiti di un Risorgimento realizzato da piccole élites borghesi, con la totale assenza delle masse popolari. Si è cercato cioè di sostituire, attraverso questa mitologia nazionale, l’adesione organica delle masse popolari allo Stato, con la selezione di «volontari» di una nazione concepita astrattamente. Questo dimostra in sostanza che nessuno ha saputo cogliere il problema posto dal Machiavelli nelle sue scritture militari: la necessità di legarsi alle masse contadine per sostituire i mercenari con una milizia nazionale, far subentrare l’elemento nazionale-popolare in alternativa al volontarismo, poiché il volontarismo rappresenta una soluzione equivoca e pericolosa quanto il mercenarismo.

Questo modo di rappresentare gli avvenimenti storici – che Gramsci definisce «storia feticistica» – rende protagonisti della storia d’Italia personaggi astratti e mitologici, e così il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano, nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia in tutta la Storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato21. Anche questo fenomeno è ampiamente spiegabile sulla base di quella che Gramsci definisce la dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà terriera, teso a mantenere ben salda la compattezza degli assetti sociali di dominio esistenti e a tenere lontane le masse popolari dai processi politici.

L’idea che l’Italia sia sempre stata una nazione è per Gramsci una pura costruzione ideologica, un preconcetto, che ha portato la classe intellettuale italiana alle acrobazie più antistoriche per rintracciare questa unità nel passato pre-risorgimentale. In Italia nel XIX secolo non poteva esserci questa unità nazionale perché mancava ad essa un elemento fondamentale il popolo-nazione e un collegamento stretto di questo con gli intellettuali nazionali. Per queste ragioni le ricostruzioni storiografiche erano in realtà propaganda che cercavano di creare quell’unità basandosi sulla letteratura più che sulla storia; per Gramsci quell’approccio all’unità era un «voler essere» piuttosto che un «dover essere» determinato da condizioni di fatto già esistenti.

La storia degli intellettuali come categoria in Italia è per Gramsci la sola che abbia avuto una continuità ininterrotta, pertanto anche il cosiddetto sentimento nazionale – prima e dopo il Risorgimento – non risultava legato a istituzioni oggettive, non era «popolare-nazionale», ma era semplicemente un sentimento da «intellettuali». In Italia non esistevano elementi oggettivi in grado di svolgere una funzione unificante reale tale da creare un sentimento nazionale che non fosse puramente soggettivo. Non potevano svolgere questa funzione: la lingua, resa discontinua dal prevalere dei dialetti; la cultura, troppo ristretta e ad uso di piccoli gruppi intellettuali con carattere di casta; i partiti politici, poco solidi e operanti nei soli frangenti elettorali. L’unico elemento «popolare-nazionale» valido ed esteso era la Chiesa, ma essa, vista la sua tradizionale natura cosmopolita e la sua lotta contro lo Stato laico, svolgeva una funzione disgregatrice più che favorire il formarsi di un sentimento nazionale unitario. Al contrario la cultura storica francese ha quale base unificante – oltre le diverse tendenze politiche che si sono succedute (dalla dinastica a quella radicale-socialista) – una coscienza «popolare-nazionale», proprio perché l’elemento permanente di una storia caratterizzata dai rivolgimenti di carattere politico è il «popolo-nazione»; in essa si è determinata nei fatti quel collegamento tra «popolo-nazione» e gli intellettuali, quasi una dipendenza dei secondi rispetto al primo. In Italia invece gli intellettuali – impegnati nell’opera di edificazione mitologica, più che storica, dell’unità d’Italia – si sono al contrario distinti dal popolo, se ne sono posti al di fuori, hanno creato e rafforzato tra di loro un particolare spirito di casta che ha quale suo elemento centrale proprio la diffidenza verso il popolo. I giacobini, al contrario, hanno lottato strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna, hanno conquistato con la lotta la loro egemonia politica, imponendosi alla borghesia e conducendola su una posizione molto più in avanzata di quanto essa avrebbe in realtà voluto e di quanto le stesse condizioni storiche rendessero possibile. All’inizio della rivoluzione la borghesia pone soltanto i suoi interessi corporativi immediati, «fa la voce grossa ma in realtà domanda ben poco»; sono i giacobini a «cacciare avanti la classe borghese a calci nel sedere», facendole perdere la sua caratteristica corporativa fino a farla divenire classe egemone e a dare una «base permanente» al nuovo Stato; i giacobini furono in sostanza per Gramsci il solo «partito della rivoluzione in atto», perché non rappresentavano solamente gli interessi immediati della borghesia francese, ma il movimento rivoluzionario nel suo insieme, perché riuscirono a porsi alla testa di un nuovo blocco sociale rivoluzionario, nel quale ebbero un ruolo anche le masse popolari e contadine, le quali si resero conto della necessità di far blocco comune con i giacobini per sconfiggere definitivamente i ceti dell’aristocrazia fondiaria. L’esperienza storica stava dunque a dimostrare che se i contadini si muovono per «impulsi spontanei», ciò provoca delle oscillazioni nei ceti intellettuali, che possono portare una parte di questi sulle posizioni del nuovo blocco sociale, e allo stesso modo, se gli intellettuali o una parte di essi si fanno portatori di una piattaforma che faccia proprie le rivendicazioni delle masse contadine, questi finiscono con il trascinare gruppi di masse sempre più significative. In conseguenza anche in Italia, si sarebbe potuto disgregare il blocco reazionario che univa i ceti rurali con i gruppi intellettuali legittimisti e clericali, solo se i gruppi democratici si fossero posti alla guida di un nuovo blocco sociale attraendo in esso e dirigendo le masse contadine e gli intellettuali degli «strati medi e inferiori». In Italia la debolezza dei patiti politici liberali, dal Risorgimento in poi, era riconducibile allo squilibrio tra l’agitazione e la propaganda e la mancanza di principî e di continuità organica. In altre parole le tendenze all’opportunismo, alla corruzione e al «trasformismo» sarebbero da ricercare nell’angusto orizzonte culturale e strategico dei partiti politici, nell’assenza di legami organici tra questi e le classi rappresentate. Questi partiti si sono sviluppati non come espressione politica e collettiva degli interessi di una classe, come coscienza consolidata e teorizzata della funzione storica di questa, ma come mere consorterie d’interessi immediati condensatesi attorno a singole personalità, si tratta dunque di aggregati politici privi di una qualsiasi attività teorica e di una prospettiva di ampio respiro, abituati al «giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici». In Italia i partiti politici «non erano permeati dal realismo vivente della vita nazionale», e per questa ragione non hanno assolto alla funzione storica della costruzione di una classe dirigente nazionale; per questo i gruppi dirigenti che hanno formato le loro capacità intellettuali nel mondo accademico o in quello della produzione erano gruppi di quadri apolitici, con una formazione mentale e culturale puramente «retorica» e non nazionale. In coerenza con la sua lontananza con le letture del socialismo determinista, Gramsci rifiuta una lettura meramente deterministica dei rapporti tra struttura economica e sovrastruttura politico-culturale:

 

«La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono che la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa omissione è appunto questo squilibrio tra agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire»22.

 

Sulla debolezza dei partiti politici e in conseguenza delle classi dirigenti in Italia, sulla loro natura, ha avuto una grave responsabilità quello che Gramsci definisce lo Stato-governo, vale a dire il grumo di interessi facenti capo alla Corona e alla sua burocrazia che in Italia ha operato come un partito, per staccare i quadri permanenti della vita politica nazionale dalle masse e dai reali interessi statali nazionali, per creare un vincolo paternalistico di «tipo bonapartistico-cesareo» tra queste personalità e lo Stato-governo. Il trasformismo e «le dittature di Depretis, Crispi e Giolitti», la miseria e la meschinità della vita culturale e di quella parlamentare e politica in Italia vanno analizzate proprio a partire da questo fenomeno. Normalmente le classi sociali producono i partiti politici e questi creano i quadri dirigenti della società civile e dello Stato, in Italia lo Stato-governo non ha operato per armonizzare queste manifestazioni con gli interessi nazionali statali, ma al contrario ne ha sempre favorito la disgregazione, staccando singole personalità politiche da un qualsiasi riferimento sociale culturale ed anche teorico più ampio rispetto a quel rapporto fiduciario, appunto «bonapartistico-cesareo», con lo Stato-governo.

Per Gramsci, in Italia, gli esiti democratici del Risorgimento così come quelli della rivoluzione socialista passavano, necessariamente, dall’assunzione della questione contadina, dunque dall’affrontare in maniera progressiva la dialettica tra città e campagna che in Italia assumeva una sua dinamica del tutto particolare ponendosi come questione meridionale. Per Gramsci il rapporto tra Nord e Sud in Italia rientra appieno nello schema classico della dialettica tra città e campagna, e può essere analizzato nelle diverse forme di cultura che le due realtà esprimono23. Le strutture delle classi intellettuali variano profondamente nei due contesti presi in esame: così nel Sud domina ancora la figura dell’intellettuale di tipo «curiale» che mantiene a contatto la massa dei contadini con quella dei proprietari fondiari e con lo Stato; nel Nord domina il tipo del «tecnico» d’officina che mantiene in contatto l’operaio con la classe capitalistica, mentre il rapporto di collegamento tra la massa operaia e lo Stato è svolto da un tipo nuovo di ceto intellettuale che è quello sindacale o espressione del partito politico.

In Italia il processo d’unificazione nazionale non si è realizzato sulla base di un rapporto d’uguaglianza, ma attraverso una relazione squilibrata all’interno della quale l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendono strettamente dal crescente impoverimento del Mezzogiorno. La realtà dello sfruttamento semicoloniale del Sud è stata sempre accuratamente celata dalle classi dirigenti ed in quest’opera secondo Gramsci hanno contribuito pure gli intellettuali socialisti, i quali, anziché svelare l’origine del rapporto diseguale, hanno concorso ampiamente a spiegare l’arretratezza del Sud attraverso argomentazioni che facevano perno sull’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale; queste antiche e radicate rappresentazioni del «lazzaronismo napoletano» hanno trovato una sanzione «pseudo-scientifica» nella comunità dei sociologi positivisti, all’interno dei quali – come è noto – un ruolo preminente aveva proprio l’intellettualità del Partito socialista italiano.

In questo modo ha trovato ampio seguito anche tra le masse popolari del Nord la convinzione di un Meridione liberato dal giogo borbonico, fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria e dall’arretratezza per ragioni tutte interne al Meridione stesso; vale a dire, si è radicata l’immagine di un Sud «palla al piede» che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale e la ricchezza economica.

Questo rapporto diseguale trova per Gramsci una sanzione politica nei programmi liberali – dall’unità d’Italia fino all’avvento del fascismo – attraverso due linee guida: nel cosiddetto giolittismo anzitutto, che mirava a creare un blocco urbano-industriale (capitalisti-operai) a base di uno Stato protezionista, nel quale il Meridione era destinato a svolgere la funzione di mercato di vendita semicoloniale per l’industria settentrionale; quindi nel programma sostenuto dal «Corriere della Sera», basato invece sull’alleanza tra industriali del Nord e rurali meridionali.

La prima di queste due linee guida del liberalismo in Italia (Il giolittismo), si reggeva sulla repressione violenta e poliziesca di ogni movimento contadino di massa e su un sistema di privilegio e favori per i ceti intellettuali del Sud, incorporati a titolo personale nell’ordine impiegatizio pubblico. In questo modo si è impedito un qualsiasi punto d’incontro tra questi due elementi della società meridionale, e così «lo strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento meridionale diventa [invece] uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio poliziesco»24.

All’interno di questo sistema di potere, gli intellettuali svolgono la stessa funzione che i sotto ufficiali e gli ufficiali subalterni assolvono nell’esercito, vale a dire, tengono a contatto gli ufficiali superiori con le truppe. Nel delineare ruolo e collocazione degli intellettuali bisogna tenere conto dell’«atteggiamento psicologico» che essi assumono verso le classi subalterne da un lato, e quelle dirigenti dall’altra; bisogna cioè chiedersi se essi «hanno atteggiamento paternalistico verso le classi strumentali? o credono di esserne una espressione organica? Hanno atteggiamento servile verso le classi dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?» 25.

Nella Questione meridionale, premessa fondamentale alle riflessioni sul Risorgimento nei Quaderni, Gramsci definisce il Mezzogiorno come una grande disgregazione sociale, all’interno della quale i contadini non hanno alcuna coesione tra di loro. Le masse contadine, che costituiscono la maggioranza della popolazione meridionale, non riuscendo a dare «espressione centralizzata» alle proprie aspirazioni, materializzano il loro perenne fermento attraverso uno stato di ribellismo endemico privo di prospettive. Al di sopra di queste masse si struttura l’assetto di dominio del blocco agrario che, attraverso le sue «proporzioni definite», riesce a mantenere le masse contadine permanentemente nella loro condizione «amorfa e disgregata» e ad evitare qualsiasi forma di centralizzazione a quello stato di perenne fermento. L’esito del Risorgimento entro un equilibrio moderato non ha fatto altro che innestare su questa secolare struttura di potere il dominio del capitalismo settentrionale saldatosi, dopo l’unità, a quello della borghesia agraria del sud in un nuovo blocco storico la cui chiave di volta risiede ancora nella funzione degli intellettuali.

 

«Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale, e in un certo senso sono le più grandi figure della reazione italiana» 26.

 

All’interno del sistema meridionale dunque grande importanza assume il ruolo degli intellettuali intermedi, poiché essi realizzano il collegamento tra il grande proprietario terriero ed il contadino. Questo tipo di intellettuale, proveniente dalla piccola e media borghesia agraria, che vive in genere dalla rendita delle sue proprietà date in affitto o mezzadria, costituisce una sopravvivenza della vecchia società ed è stato sostituito nelle società industriali dall’intellettuale organizzatore, tecnico, specialista della scienza applicata.

Al Sud, il controllo sociale operato dagli intellettuali sui movimenti dei contadini e con esso la capacità di assorbimento da parte del blocco sociale dominante, si esprime in primo luogo nel fatto che i movimenti dei contadini non si riassumono in organizzazioni di massa autonome e indipendenti, dunque organizzazioni in grado di selezionare quadri dirigenti contadini o di origine contadina. Pertanto, dopo l’unità d’Italia, quando i contadini riescono ad entrare nelle articolazioni istituzionali dello Stato, come le amministrazioni locali o il parlamento, lo fanno sempre attraverso composizioni e scomposizioni di partiti locali, il cui personale è costituito di intellettuali, ma che sono controllati dai grandi proprietari e dai loro uomini di fiducia, come Salandra, Orlando, Di Cesarò. Tramite gli intellettuali dunque si realizza il blocco agrario che funge da «intermediario e da sorvegliante» del capitalismo parassitario del nord, e che ha il solo scopo di conservare lo stato di cose esistenti:

 

«Al di sopra del blocco agrario funziona nel mezzogiorno un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora a impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana. Esponenti di questo blocco intellettuale sono Giustino Fortunato e Benedetto Croce, i quali possono essere perciò giudicati come i reazionari più operosi della penisola»27.

Per Gramsci la grande disgregazione sociale del Mezzogiorno non riguarda solo le masse contadine, ma gli stessi intellettuali. Così al Sud, accanto alle grandi proprietà, sono esistite ed esistono «grandi accumulazioni culturali e di intelligenza di singoli individui o in ristretti gruppi di grandi intellettuali», mentre manca totalmente qualsiasi forma di organizzazione della cultura media. Nel Mezzogiorno sono presenti importanti case editrici come la Laterza, Accademie e imprese culturali di grande importanza, ma al contempo non esistono piccole e medie riviste, o case editrici attorno alle quali possano concentrarsi gruppi di intellettuali medi meridionali. Questo fa si che gli intellettuali che si staccano dal blocco agrario e affrontano la questione meridionale in termini radicali, debbano farlo in imprese editoriali al di fuori del Mezzogiorno. In questo contesto Gramsci attribuisce a Benedetto Croce e Giustino Fortunato una funzione ben precisa, quella di «supremi moderatori politici e intellettuali», che hanno sempre cercato di evitare che l’impostazione dei problemi riguardanti il Mezzogiorno potesse assumere carattere radicale fino a divenire rivoluzionaria. Croce e Fortunato sono definiti «uomini di grandissima cultura e intelligenza», legati alla cultura europea e mondiale ma allo stesso tempo radicati nel terreno culturale meridionale d’origine, e proprio perciò veri e propri strumenti di formazione culturale e politica in grado di cooptare nel blocco di potere nazionale gli intellettuali sorti nel terreno culturale del Sud:

 

«essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti(…) In questo senso Benedetto Croce ha svolto una grandissima funzione nazionale: ha distaccato gli intellettuali radicali del mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario»28.

 

La valenza nazionale della questione meridionale trova dunque uno snodo fondamentale proprio nella complessità del blocco storico determinatosi con l’unificazione politico-territoriale dell’Italia. La comprensione della natura dialettica del rapporto tra moderati e democratici nel Risorgimento è per Gramsci fondamentale perché in essa risiedono alcuni tasselli fondamentali per la conoscenza e la disarticolazione di quel blocco sociale. Da tutto ciò, e da molti altri elementi che non ho potuto trattare con questa relazione, si capisce la valenza politica del Risorgimento e la necessità di un suo studio approfondito per una reale conoscenza della società italiana. Sono passati settant’anni da queste riflessioni di Gramsci, quasi centocinquanta dall’unità d’Italia, ma anche oggi uno dei compiti più importanti e seducenti per la ricerca storica è non solo portare luce su quegli avvenimenti, ma capire quanto di quegli avvenimenti abbia continuato a sopravvivere nella storia successiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia, dall’unificazione ai giorni nostri, Einaudi Editore, Torino, 1977

2 Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Editori Laterza, Bari, 2003, pag. 293

 

3 Ibid., pag. 316

4 Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, UTET, Torino, 1932

5 Storia del liberalismo europeo , cit. Ibid., pag. 317

6  La tesi, che polemicamente Salvatorelli accusa di positivismo materialistico, prende le mosse dall’attribuire al riformismo di Carlo Alberto il merito di aver fortificato lo Stato Sabaudo fornendo ad esso i mezzi materiali per l’impresa nazionale, dunque dal ritenere quell’esperienza come la preparazione fondamentale dell’azione patriottica successiva.

7 Va però qui ricordato che Salvatorelli non rifiuta solo l’interpretazione «modernista», con ancora più forza respinge l’idea «passatista», propria della tradizione nazionalista, che considera il Risorgimento come pura e semplice continuazione della precedente storia d’Italia, come processo autoctono, indipendente dalla più generale storia europea. Il Risorgimento si inserisce appieno nelle correnti di pensiero, nei riferimenti politici e ideali ad un contesto che è a tutti gli effetti europeo e ciò da Balbo a Mazzini.

8 Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi Editore, Torino, 1944, pag. 8

 

9 Storia del liberalismo europeo , cit. Ibid., pag. 325

10 Ibid., pag. 333

11 Pensiero e azione del Risorgimento, cit. pag. 119

12 Ibid., pag. 111

13 Ibid., pag. 119

14 Karl Marx – Friederich Engels, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti Roma 1959, pag. 109

15 Ibid, . pag. 142

16 Storia del liberalismo europeo, cit. pag. 335

17 Gran parte delle considerazioni che in proposito affronto in questa parte sono state già ampiamente svolte nel libro di seguito citato, dal quale in parti significative sono state tratte. Gianni Fresu, Il Diavolo nell’ampolla, Antonio Gramsci, gli intellettuali il partito e le masse, ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI, La Città del sole, Napoli 2005

18 Nonostante tutti i limiti ravvisati nel processo risorgimentale, negli orientamenti storiografici di orientamento marxiano il Risorgimento assume un valore e un’importanza centrale che va ben oltre i suoi esiti. Così il PCI della clandestinità, in perfetta sintonia con lo storicismo di Antonio Gramsci, si richiamerà idealmente al Risorgimento in antitesi al fascismo (non a caso chiamerà le sue divisioni partigiane Brigate Garibaldi), e interpreterà la Resistenza come il compimento del Risorgimento italiano. La Resistenza costruisce la Repubblica democratica e con ciò porta a realizzazione i più profondi ideali del Risorgimento rendendo partecipi e protagoniste quelle masse popolari che il mazzinianesimo non aveva saputo o voluto coinvolgere.

19 Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi Editore Torino 1974, p. 232

20 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi Editore, Torino 1977, cit., pag. 41

21 Ibid., p. 1981

22 Ibid., pag. 387

23 Benedetto Croce e Giustino Fortunato sono posti da Gramsci a capo di un movimento culturale meridionale che si contrappone al movimento culturale [futurista] del Nord. All’interno di questa dinamica però la Sicilia si stacca dal resto del sud e i suoi intellettuali hanno una diversa collocazione; così Crispi è l’uomo dell’industria settentrionale, mentre sia Gentile sia Pirandello sono collocabili – seppur diversamente – all’interno del movimento culturale futurista.

 

24 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. pag. 36

25 ibid., pag. 37

26Antonio Gramsci La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma, cit. p.28

27 Ibid., p.37

28 Ibid., p. 39

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.