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Lenin, la questione contadina, il problema della alleanze

CONVEGNO
I PROBLEMI DELLA TRANSIZIONE AL SOCIAALISMO IN URSS
Napoli, 21-23 novembre 2003

ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
ISTITUTO DI SCIENZE FILOSOFICHE E PEDAGOGICHE DELL’UNIVERSITÀ DI URBINO

 

Lenin, la questione contadina, il problema della alleanze
Di Gianni Fresu

Il problema delle alleanze e la questione contadina in Lenin costituiscono un tema, ricco di possibili implicazioni e letture, fondamentale per indagare i problemi della transizione al socialismo in URSS, specie in relazione alle scelte di politica economica adottate a seguito dell’abbandono della NEP con Stalin, e alle ricadute politico sociali di quella scelta. Oltre a ciò, indagare questo tema risulta estremamente utile poiché esso, a mio avviso più di ogni altro, ci porta inevitabilmente a confrontarci con la concezione profondamente antidogmatica e dialettica del marxismo di Lenin, dunque un tema che assume una particolare importanza proprio in tempi come questi, nei quali, non solo nell’ambito della storiografia reazionaria, ma anche in gran parte delle impostazioni riconducibili ad intellettuali e dirigenti politici di forze ex e post comuniste, ha prevalso una colossale operazione di rimozione storico-politica che ha finito per nutrirsi di categorie e argomentazioni proprie dell’anticomunismo di maniera più becero e menzognero.
Nelle mie riflessioni su questo argomento ho voluto dividere l’analisi in tre grandi tappe che non hanno solo valore sul piano della scansione temporale dell’opera di Lenin, ma che corrispondono a tre fasi ben precise di un percorso di chiarificazione e definizione teorica che sta alla base della sua strategia rivoluzionaria: la prima di queste tappe corrisponde allo studio delle concrete «formazioni economico sociali» della Russia compiuto da Lenin tra il 1893 e il 1898; la seconda alla questione contadina in relazione al passaggio di potere ai soviet tra l’aprile e l’ottobre del 1917; la terza al tema dell’«alleanza economica» tra proletariato e contadini tra il 1921 e il 1922.

 

1) Lo studio delle concrete “formazioni economico sociali” della Russia (1893 e il 1898).

In relazione alla prima di queste tre tappe, è bene prendere le mosse da una considerazione di carattere generale relativo all’approccio che contraddistingue sin dall’inizio la concezione teorica di Lenin: il giovane Lenin si accosta all’indagine marxista con un metodo che lo porta a privilegiare l’analisi statistico-economica relativa alla realtà sociale russa, piuttosto che concentrarsi in trattazioni sulla rivoluzione o sul modo di produzione capitalistico in generale; dunque intende il marxismo come uno straordinario strumento indagine scientifica che ci fornisce dei criteri per comprendere le linee di tendenza generali dell’evoluzione storica dei sistemi di produzione e di relazione sociale, ma che acquista tutto il suo valore rivoluzionario solo attraverso lo studio approfondito delle concrete «formazioni economico-sociali» storicamente determinate, cioè delle specificità che rendono la prospettiva del socialismo diversa e peculiare a seconda del paese in cui la si intende realizzare. È infatti proprio grazie a questo metodo, che segna una rottura completa con gli schemi evoluzionistici del socialismo nella Seconda Internazionale, che Lenin giunge ad una originale lettura della questione contadina in Russia, in rapporto all’affermarsi del capitalismo e al consolidarsi in essa di una classe operaia che l’arretratezza economico-sociale e il dispotismo zarista rendeva tra le più combattive e rivoluzionarie al mondo.
Sul piano politico Lenin si trova a fronteggiare sin da principio le posizioni dei populisti, secondo i quali l’impoverimento e la disgregazione della comunità contadina rendevano impossibile uno sviluppo capitalistico, che andava pertanto evitato. Ampiamente rappresentative di questo periodo, della battaglia contro le concezioni populiste, e più in generale del suo modo di intendere il marxismo, sono tre opere che costituiscono le premesse teoriche di tutta l’attività politica successiva di Vladimir Il’ič Ul’janov: Che cosa sono gli “amici del Popolo” e come lottano contro i socialdemocratici? del 1894; Caratteristiche del romanticismo economico del 1897; Lo sviluppo del capitalismo in Russia del 1898.
In Che cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici?, Lenin rileva anzitutto che, mentre gli economisti del passato si sono sempre limitati a parlare della società in generale, Marx si è occupato di una specifica «formazione economico-sociale», quella capitalistica. Per i «vecchi sociologi ed economisti» il concetto di «formazione economico-sociale» risultava infatti superflua, dato che nelle loro concezioni c’era posto solo per i discorsi che riguardavano il fine, l’essenza, la definizione della società in generale. In antitesi a ciò, l’idea dello sviluppo delle forze produttive sgomberava il campo dalla «morale puerile» della «sociologia soggettivista». Marx era arrivato a questo risultato separando i vari campi della vita sociale, separando tutti i rapporti sociali di produzione, come rapporti primordiali che determinano gli altri: «Questo è lo scheletro del capitale. Tutto sta però nel fatto che egli non si limitò alla sola teoria economica nel senso abituale della parola, che egli – pur spiegando la struttura e l’evoluzione di una data formazione sociale esclusiva con i rapporti di produzione – investigò ciò nondimeno sempre e dappertutto le sovrastrutture corrispondenti a questi rapporti di produzione, rivestì lo scheletro di carne e sangue»1.
Prima di Marx [afferma Lenin] non esisteva un’analisi scientifica dei fenomeni storici e sociali, poiché i sociologi, non sapendo risalire ai rapporti essenziali, avevano la pretesa di studiare le forme giuridiche come se queste fossero state un semplice riflesso delle idee, prima di Marx si concepivano i rapporti sociali come realtà consapevolmente edificata sulla base delle idee. L’esempio più chiaro di ciò si aveva nella concezione del «contratto sociale», di cui permanevano ampie tracce nel socialismo utopistico, e che non aveva alcuna corrispondenza con quanto si poteva osservare nella storia. Questo modo di procedere «aprioristico» e «metafisico», consisteva nell’elaborare teorie generali indipendentemente dall’esperienza concreta e prima di analizzare un qualsiasi fatto costitutivo.
Dunque il più alto valore scientifico del marxismo, per Lenin, consisteva nella sua ricerca tesa a spiegare le specifiche leggi storiche che determinano la nascita, l’esistenza, lo sviluppo e la morte di un organismo sociale storicamente determinato e la sua sostituzione da parte di un altro.
I populisti invece avevano per Lenin la tendenza a girare intorno alle questioni senza misurarsi mai con la realtà di queste condizioni specifiche in Russia, limitandosi ad appellarsi alla specifica realtà della comunità contadina di cui, in definitiva, non conoscevano [o negavano] le profonde trasformazioni. Nonostante ciò i populisti accusavano i marxisti di credere e professare una fede basata sull’«intangibilità di uno schema storico astratto», su una previsione meramente dottrinaria. È bene soffermarsi con attenzione sulla risposta che il giovane Lenin da a questa accusa, perché in essa è già ampiamente riscontrabile la diversità della sua impostazione rispetto alla scuola determinista della Seconda Internazionale: «Nessun marxista, mai e in nessun posto, ha sostenuto che in Russia vi deve essere il capitalismo perché c’è stato in occidente, ecc. Nessun marxista ha mai visto nella teoria di Marx uno schema storico-filosofico obbligatorio per tutti, qualcosa di più che la spiegazione di una data formazione economico-sociale (…) nessun marxista ha mai fondato le sue concezioni socialdemocratiche se non sulla loro corrispondenza con la realtà e con la storia dei rapporti economico-sociali determinati, cioè Russi, e non poteva fondarle su altro, perché questa esigenza verso la teoria è affermata e posta in modo assolutamente netto e preciso, come pietra angolare di tutta la dottrina, da Marx»2.
Così chi si pone la domanda «deve la Russia passare attraverso la fase capitalistica di sviluppo?», risponde per Lenin a criteri, estranei al marxismo, che vedono questa necessità in una sfera tutta politica. Se il marxismo viene inteso come la professione di fede verso una dottrina per «schemi astratti», a quella domanda si deve rispondere partendo dal carattere assoluto del processo dialettico, dal «valore filosofico generale della teoria di Marx», fino ad arrivare all’inevitabilità per ogni paese di attraversare – nello stesso modo – questa fase, ma dato che il marxismo parte non da discorsi generali, ma dallo studio delle specifiche formazioni economico-sociali concrete, la risposta può essere trovata solo in esse.
Un passo ulteriore in direzione di questo studio si può trovare in Caratteristiche del romanticismo economico, nel quale Lenin indaga le teorie economiche e sociali del capofila del romanticismo economico dei primi dell’ottocento, Simonde de Sismondi, e quelle analoghe dei populisti russi. Sismondi, che nei suoi studi si era occupato anche dei problemi economici generali russi, affermava che lo sviluppo della grande produzione e del lavoro salariato nell’industria e nell’agricoltura creavano una situazione di disequilibrio in cui la produzione superava il consumo, perché, con la trasformazione delle masse contadine in lavoratori giornalieri, semplici operai e disoccupati, la produzione stessa non poteva trovare nel mercato interno un numero adeguato di consumatori.
Rispetto agli economisti classici che nelle loro teorie si riferivano al capitalismo e al proletariato come a dati di fatto, determinati quasi per una legge naturale, Sismondi ha avuto l’indubbio merito di aver correttamente individuato, come alla base della creazione del proletariato ci fosse un processo storico di espropriazione delle masse dei piccoli produttori, e di aver criticato tra i primi l’«economia politica». Tuttavia, secondo Lenin, Sismondi non è stato capace di cogliere in profondità i fenomeni connessi alla trasformazione capitalistica della società, finendo per nascondersi dietro ai suoi «pii desideri». In definitiva, Lenin riconosce a Sismondi il merito di aver individuato alcune contraddizioni fondamentali del capitalismo, ma il demerito di avergli dato una risposta meramente sentimentale e «piccolo-borghese».
In tal senso ad esempio, la rovina del piccolo produttore era la riprova del contrarsi del mercato interno, della necessità di un mercato estero e dell’impossibilità di uno sviluppo capitalistico, teoria questa molto diffusa tra i populisti. La trasformazione della piccola proprietà in grande impresa commerciale portava a questo risultato per la semplice ragione che il reddito pro capite dei contadini salariati era enormemente più limitato rispetto a quanto poteva garantire la piccola proprietà contadina. Per Lenin, Sismondi ha individuato anche in questo caso una contraddizione reale – quella tra produzione, consumo e accumulazione – ma ha evitato di analizzarla in profondità e per questa ragione non è stato in grado di comprendere quanto questa contraddizione fosse in realtà essenziale per lo sviluppo capitalistico, non si è reso conto che questa dinamica stava alla base di quella «accumulazione originaria» da cui si era storicamente creata la «ricchezza commerciale» tipica della trasformazione capitalistica della società.
La nascita della grande produzione in Russia e la disgregazione delle vecchie comunità contadine, lungi dall’impedire uno sviluppo capitalistico, riproducevano semmai – seppur con modi estremamente diversi – quel fenomeno che l’Inghilterra aveva vissuto diversi secoli prima [tra il XIV e XV secolo] che Tommaso Moro ha efficacemente descritto ne L’Utopia3 e che Marx ha poi ampiamente analizzato nel Capitale, individuando proprio nel processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione, la genesi storica del capitalismo, l’«accumulazione originaria del capitale»4.
Per Lenin quindi, Sismondi ha eluso l’analisi delle condizioni del capitalismo, sostituendole l’idealizzazione della piccola borghesia e delle sue utopie. L’«incomprensione romantica» del fatto che in un ordinamento sociale moderno i piccoli proprietari si trasformano in piccola borghesia, la poca propensione a soffermarsi sulla divisione sociale del lavoro nell’economia mercantile, sono tutti fattori che hanno impedito a Sismondi di vedere il legame che sussiste tra lo sviluppo del capitalismo, la diminuzione della popolazione agricola e l’aumento di quella industriale.
La «critica dell’economia politica», al contrario, ha stabilito con estrema precisione che lo sviluppo del capitalismo e della grande produzione agricola, non portano alla contrazione, ma alla creazione del mercato interno, che l’economia mercantile è propedeutica a quello sviluppo, all’interno di un processo nel quale la piccola produzione domestica cede il posto a quella mercantile, la piccola bottega alla fabbrica.
Ed è stata proprio questa dinamica a portare alla creazione dei due elementi costitutivi fondamentali del moderno capitalismo, il «capitale variabile» e il «capitale costante»: «i giornalieri espulsi dall’agricoltura in seguito alla trasformazione dei contadini in fittavoli forniscono forza lavoro- al capitale, mentre i fittavoli diventano acquirenti dei prodotti dell’industria e non solo dei beni di consumo, ma anche dei mezzi di produzione, che non possono restare gli stessi dopo che la piccola agricoltura è stata soppiantata dalla grande»5.
Sismondi ha preteso di applicare alla società capitalistica «la morale del contadino risparmiatore», e non a caso ha affermato che la produzione deve corrispondere al consumo, che la produzione è determinata dal reddito, che il reddito nazionale deve regolare il consumo nazionale, dato che l’economista svizzero non ha visto i modi attraverso cui lo sviluppo capitalistico genera «fisiologicamente» un incremento sempre più grande delle forze produttive e dato che, in definitiva, non ha compreso le leggi dell’accumulazione capitalistica.
In termini squisitamente politici tutto questo discorso significa che, mentre per i populisti l’immiserimento e la disgregazione del mondo contadino portano alla conclusione che in Russia è impossibile uno sviluppo capitalistico, secondo Lenin, invece, proprio queste sono chiare manifestazioni di uno sviluppo capitalistico già in atto.
Tra la dottrina di Sismondi e le posizioni dei populisti Lenin rileva un’identità sorprendente, che riguarda in primo luogo il fatto che entrambi negano che la prima caratteristica del capitalismo sia la produzione per la produzione. Ma oltre a questo c’è di più, vale a dire la società idealizzata. «In nome di che cosa Sismondi condanna il capitalismo? Che cosa le oppone? La piccola produzione indipendente, l’economia naturale dei contadini nelle campagne e i mestieri artigiani nelle città. (…) Tanto il romanticismo quanto il populismo celebrano l’apoteosi della piccola azienda contadina»6. Entrambe queste impostazioni negano il carattere progressivo del capitalismo, ignorano la necessità del suo sviluppo e gli muovono una critica sentimentale ed individualistica. Così le idee fondamentali di Sismondi erano patrimonio essenziale della dottrina populista.
Prima di concludere con le considerazioni su questo scritto, è opportuno sottolineare un altro suo aspetto estremamente indicativo. In esso Lenin, nonostante la giovane età e nonostante la sua ancora limitata conoscenza della dialettica hegeliana, dimostra una proprietà analitica che lo porta coscientemente ad assumere il senso delle contraddizioni dialettiche di cui si compone la totalità di una formazione economico-sociale, e ad esprimere una critica dettagliata a Sismondi e ai populisti proprio per il fatto di non saper vedere questa totalità nelle sue contraddizioni. Entrambe queste impostazioni infatti, idealizzando la piccola produzione, tendono a trasformarla in organizzazione sociale, in modo di produzione, contrapponendola al capitalismo. Questa contrapposizione è per Lenin la chiara espressione di una concezione estremamente superficiale che tende ad isolare e condannare artificiosamente una forma dell’economia mercantile (il grande capitale industriale), e ad idealizzare utopisticamente un’altra forma della stessa economia mercantile (la piccola produzione). Tanto i romantici di inizio ottocento, che i populisti della fine del secolo, escogitano una «piccola economia astratta», ponendola al di fuori dei rapporti sociali di produzione, senza rendersi conto che questa piccola produzione si trova in effetti nell’ambito della produzione mercantile.
«In realtà, il piccolo produttore di cui i romantici e i populisti fanno l’apoteosi è un piccolo borghese che si trova in rapporti contraddittori come ogni altro membro della società capitalistica, che si difende mediante la stessa lotta, la quale esprime costantemente, da una parte, un’esigua minoranza di grande borghesia e sospinge, dall’altra, la maggioranza nelle file del proletariato (…) non esistono piccoli produttori che non stiano tra queste due classi opposte, e questa posizione intermedia condiziona necessariamente il carattere specifico della piccola borghesia, determina le sue oscillazioni, la sua ambiguità, la sua doppiezza, il suo gravitare verso la minoranza che esce vittoriosa dalla lotta, la sua ostilità verso gli sconfitti, cioè verso la maggioranza»7. Questo passaggio è di estrema importanza, perché in esso Lenin espone chiaramente le dinamiche che portano la piccola borghesia a subire la direzione delle classi dominanti.
Il terzo passaggio attraverso il quale Lenin si misura nella ricognizione della specifica formazione economico-sociale della Russia, è quello probabilmente più importante contenuto ne Lo sviluppo del capitalismo in Russia, essenziale perché in essa si configura la diversità dell’approccio di Lenin al materialismo storico rispetto alle altre correnti del nascente movimento socialdemocratico russo. Lo sviluppo del capitalismo in Russia è un’opera imponente per la mole dei dati statistici ed economici passati sotto la lente d’ingrandimento di Lenin. In essa, sulla base dell’indagine del regime economico sociale e della struttura di classe, Lenin individua un primo elemento centrale che distingue fortemente la sua lettura della realtà russa, non solo dai populisti ma anche da Plechanov e dai menscevichi, vale a dire la funzione dirigente del proletariato. Per Lenin la Russia è sempre più dominata da rapporti di produzione capitalistici, anche se questi continuano a convivere contraddittoriamente con la sopravvivenza di istituti del passato, incompatibili con il capitalismo, e nonostante il fatto che ancora la stragrande maggioranza della sua popolazione risulti legata ad una dimensione rurale pre-capitalistica, ma nonostante queste contraddizioni il processo di formazione di un proletariato moderno e di una classe capitalistica costituiscono un dato di fatto incontrovertibile.
La necessità di una rivoluzione borghese è fuori discussione per Lenin, come per le altre anime del marxismo russo, tuttavia ogni necessità storica esige una verifica nella realtà concreta. «La tendenza a cercare le risposte a domande concrete nel semplice sviluppo logico di una verità generale sul carattere fondamentale della nostra rivoluzione, altro non è che un avvilimento del marxismo e una derisione del materialismo dialettico. Di gente simile, che deduce, per esempio, la funzione dirigente della borghesia nella rivoluzione o la necessità che i socialisti appoggino i liberali da una verità generale circa il carattere di questa rivoluzione, Marx direbbe probabilmente (…) ho seminato draghi per raccogliere pulci»8.
Tanto Plechanov, quanto i menscevichi non hanno saputo comprendere la natura del processo che ha portato in Russia all’affermazione dei rapporti di produzione capitalistici, e le peculiarità assolute di questa. Nei paesi occidentali la borghesia ha assunto un ruolo di direzione, anzitutto sul piano economico-sociale e quindi politico, privo di ombre. In Russia invece le trasformazioni in senso capitalistico della società si sono basate su una particolare soluzione di compromesso tra la borghesia nazionale e l’autocrazia zarista, tra i ceti più dinamici del capitalismo e quelli parassitari dell’aristocrazia feudale. In Russia la borghesia ha rinunciato ad assumere un ruolo politicamente autonomo, accontentandosi degli spazi di iniziativa economica che l’assolutismo le ha garantito. Per questo Lenin attribuisce al proletariato e non alla borghesia russa, la funzione dirigente di «classe generale».
In un contesto siffatto le prospettive dello sviluppo sono per Lenin sostanzialmente due: o la società basata sulla vecchia azienda signorile e legata ancora alla servitù della gleba, si trasforma «junkeristicamente» in azienda capitalistica, e tutto il regime agrario dello Stato diviene capitalistico, mantenendo però numerosi aspetti della società feudale; oppure la rivoluzione demolisce e spazza via la vecchia azienda signorile e le relative sopravvivenze feudali. Nel primo caso, il processo di svecchiamento, trasformazione e sviluppo non può che essere lento, con l’aggravio di unire lo sfruttamento capitalistico all’accentuazione del dominio politico più reazionario e alla sistematica espropriazione e oppressione delle masse contadine. Nel secondo caso invece, lo sviluppo capitalistico, dopo aver sgombrato il campo da tutti gli istituti feudali residui, attraverso l’espropriazione delle terre dei signori a vantaggio della piccola azienda contadina, può rendere più rapido e libero lo sviluppo delle forze produttive, creando con ciò le condizioni per far raggiungere al proletariato il suo vero obiettivo. Lenin già in quest’opera individua nella riforma agraria la chiave che avrebbe consentito al proletariato russo di assumere una direzione verso le sterminate masse dei contadini senza terra. Ed è questo tipo di direzione che Gramsci ha in mente quando analizzala funzione positiva dei Giacobini nella rivoluzione francese e quella negativa del Partito d’Azione nel corso del Risorgimento italiano, èd e a questo tipo di direzione che Gramsci fa riferimento quando indica il ruolo che la classe operaia italiana avrebbe potuto esercitare nella soluzione della questione meridionale, che in Italia significava appunto questione contadina.
Secondo Lenin in Russia questa rivoluzione non poteva essere condotta dalla «borghesia tentennante e controrivoluzionaria» già compromessa con l’aristocrazia zarista e perciò incapace a svolgere quel ruolo di propulsione politica e sociale assunto in occidente, ma dal proletariato e dalle masse dei contadini senza terra, che in Russia, anche in questo caso diversamente che in occidente, potevano ancora svolgere un ruolo progressivo.
Per Lenin ciascun paese avrebbe raggiunto il socialismo attraverso un modo proprio, secondo le proprie peculiarità economiche, storiche e culturali. In coerenza con questo assunto generale Lenin trae la conclusione che il percorso verso il socialismo del suo paese sarebbe stato estremamente diverso rispetto a quello ipotizzato nei paesi occidentali. In ragione di questa diversità Lenin sviluppa una concezione dei rapporti con le masse contadine che non è possibile rintracciare nelle altre componenti del POSDR e che nel corso del 1917 ha lasciato interdetti anche molti bolscevichi, rimasti sostanzialmente fermi al vecchio programma. Nella concezione socialdemocratica infatti alle masse contadine veniva attribuito un ruolo rivoluzionario solo nella fase democratico-borghese della rivoluzione e rispetto ad esse in ogni caso non si prevedeva un piano d’azione definito ed operativo da parte del partito operaio. Lenin anche su questo tema ha operato per scardinare gli schemi meccanici del socialismo del tempo e così tra il 1901 e il 1908 lottò per inserire nel programma del partito rivoluzionario del proletariato le rivendicazioni delle masse contadine, nella convinzione che solo ponendosi il problema della loro direzione il proletariato russo avrebbe avuto qualche possibilità di successo 9. Questa spinta antidogmatica trova dunque proprio nella questione contadina e nella politica delle alleanze un campo importante d’applicazione e non ha eguali nemmeno nelle altre componenti marxiste rivoluzionarie in opposizione rispetto alle posizioni della Seconda Internazionale, e non è superfluo ricordare che proprio su questo punto – e non solo in occasione della rivoluzione d’ottobre – la stessa Rosa Luxemburg non perse occasione per criticare Lenin reo di proporre una soluzione a suo dire «piccolo-borghese» della questione contadina in contrasto con gli assunti fondamentali del marxismo.

2) il passaggio del potere ai soviet e la questione contadina tra l’aprile e l’ottobre 1917

Come è noto, fino alla rivoluzione di febbraio Lenin considera la prospettiva della rivoluzione russa entro gli schemi di una rivoluzione democratico borghese e la inscrive nel quadro della rivoluzione socialista europea. La rivoluzione del febbraio 1917 però, dopo tre anni di guerra, muta profondamente il quadro tattico della rivoluzione russa bruciando rapidamente le tappe della rivoluzione democratico borghese e ponendo all’ordine del giorno la questione del passaggio del potere ai soviet. Questa transizione non segna immediatamente il passaggio al socialismo, ma determina le condizioni per l’edificazione del socialismo entro un quadro istituzionale – che Lenin paragona alla Comune di Parigi – nuovo e più avanzato rispetto alla repubblica parlamentare, appunto il sistema dei soviet.
Nel delineare questo passaggio Lenin però prende atto della posizione minoritaria dei bolscevichi e indica nel lavoro teso alla conquista della maggioranza all’interno dei soviet e nella fine di ogni collaborazione con il governo provvisorio, i compiti immediati dei bolscevichi, la questione contadina si inserisce in questa prospettiva. Nelle Tesi di aprile, al punto 4, Lenin scrive: «Riconoscere che il nostro partito è minoranza, nella maggior parte dei soviet dei deputati operai, di fronte al blocco di tutti gli elementi opportunisti piccolo borghesi, che sono soggetti all’influenza della borghesia e che estendono quest’influenza al proletariato(…) Spiegare alle masse che i soviet dei deputati operai sono l’unica forma possibile di governo rivoluzionario e che pertanto, fino a che questo governo sarà sottomesso all’influenza della borghesia, il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica. Fino a che saremo in minoranza, svolgeremo un’opera di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dei loro errori sulla base dell’esperienza»10
Ancora il 9 di aprile Lenin riafferma la necessità di rovesciare il governo provvisorio, ma al contempo ribadisce che, fino a quando il suo potere poggia su un accordo con i soviet ed esso esprime la «coscienza e la volontà della maggioranza degli operai e dei contadini», questo risultato non può essere conseguito subito. Da ciò deriva il compito per gli operai coscienti di «conquistare la maggioranza» se intendono prendere il potere. In questo articolo Lenin si pone l’obiettivo di creare un partito comunista che attraverso la sua azione sia in grado di attrarre proletari, contadini e masse sempre più numerose, dunque un partito che non intende la rivoluzione come il colpo di mano di una minoranza cosciente ed antepone la presa del potere alla conquista della maggioranza delle classi subalterne. «Noi non siamo dei blanquisti, non vogliamo la conquista del potere da parte di una minoranza. Siamo dei marxisti e sosteniamo la lotta di classe proletaria contro l’intossicazione piccolo-borghese, contro lo sciovinismo e il difensivismo, contro le frasi vuote, contro la soggezione alla borghesia»11.
Le Tesi di aprile come è noto, suscitarono un ampio dibattito e profonde spaccature anche tra gli stessi bolscevichi, una parte dei quali non accettò la svolta operata da Lenin. Nelle Lettere sulla tattica Lenin precisa ulteriormente la sua linea e non perde l’occasione di polemizzare con quanti all’interno delle posizioni bolsceviche restano legati agli schemi astratti delle formule teoriche senza porsi il problema di verificarle nella realtà concreta. Le lettere sulla tattica costituiscono un documento assai importante che non solo chiarisce il senso tutt’altro che dogmatico o dottrinario del marxismo di Lenin, ma delinea il tema centrale della direzione da parte del proletariato delle grandi masse contadine; infatti, solo attraverso la stretta alleanza tra operai e masse contadine Lenin intravede la possibilità di sottrarre queste all’influenza della borghesia e creare con ciò le condizioni per il socialismo. Il senso antischematico del rapporto dialettico tra intervento soggettivo e realtà oggettiva, il valore non subordinato della volontà e dell’azione politica, ma insieme la scrupolosa ricognizione del rapporto tra le classi nelle specificità di ogni frangente storico, portano Lenin a rigettare tanto l’avventurismo putchista, quanto l’inerte attesa della maturazione di «condizioni adatte» che si sviluppano esclusivamente in un ambito tutto strutturale.
Non è dunque un caso che nell’urgenza del momento Lenin si rifaccia a Engels per riaffermare che il marxismo non costituisce un «dogma» ma una guida per l’azione, scagliandosi contro le formule imparate a memoria e ripetute meccanicamente, «le quali, nel migliore dei casi, possono tutt’al più indicare i compiti generali che vengono di necessità modificati dalla situazione economica e politica concreta di ciascuna fase del processo storico (…) il marxista deve tener conto della vita concreta, dei fatti precisi della realtà, e non abbarbicarsi alla teoria di ieri, che, come ogni teoria, indica nel migliore dei casi soltanto il fondamentale, il generale, si approssima soltanto a cogliere la complessità della vita»12.
Nel momento dato la situazione economica e politica concreta era per Lenin contraddistinta da una fase nella quale si registra il passaggio dalla prima alla seconda tappa della rivoluzione, cioè il passaggio del potere dalla borghesia alla democrazia sovietica, un passaggio che pone fine al dualismo tra il governo provvisorio dominato dagli interessi imperialistici della borghesia e i soviet, espressione genuina della volontà popolare. Per Lenin la vecchia formula bolscevica della «dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini» aveva trovato una materializzazione, si «era fatta carne e sangue», in un’istituzione storica concreta, il soviet; la vecchia formula, secondo cui al dominio della borghesia doveva seguire quello del proletariato e dei contadini, aveva trovato nella realtà effettuale una traduzione in cui coesistevano simultaneamente, in un intreccio originale, l’uno e l’altro dominio ben rappresentati da quel dualismo di poteri che il governo provvisorio e i soviet esprimevano.
Lenin individua dunque questa fase di transizione, ma non arriva alla conclusione di saltare al di sopra del movimento contadino o piccolo borghese, «giocando alla presa del potere da parte di un governo operaio», ma indica l’obiettivo programmatico della conquista della maggioranza all’interno dei soviet tra i deputati degli operai, dei salariati agricoli, dei contadini e dei soldati.
Lenin era consapevole che i compromessi raggiunti dai socialisti-rivoluzionari con le forze borghesi, nel quadro del governo provvisorio, rendevano impossibile l’attuazione del loro programma agrario, tutto ciò creava delle contraddizioni tra questo partito e la sua base sociale, appunto composta da piccola proprietà contadina e salariati agricoli, e ciò proprio in un momento nel quale si apriva un fossato sempre più grande tra queste categorie sociali e la grande proprietà contadina. Compito dei bolscevichi era dunque inserirsi in questa contraddizione e portare dalla propria parte le masse contadine.
Le rivendicazioni dei contadini andavano contro la grande proprietà fondiaria che imbrigliava l’intero sistema agrario russo e consistevano nell’abolizione senza indennizzo della proprietà della terra; nella confisca di tutte le scorte vive e morte delle terre confiscate (eccezion fatta per i contadini con poca terra); nella ripartizione egualitaria della terra tra i lavoratori con spartizioni periodiche; nell’abolizione del lavoro salariato; nella promulgazione di leggi che impediscano la compravendita della terra. Queste rivendicazioni non potevano essere soddisfatte dai socialisti-rivoluzionari – anche se facevano parte del loro programma – che continuavano a restare alleati alla grande borghesia, dunque i bolscevichi dovevano mostrare chiaramente alle masse contadine gli «inganni dei socialisti–rivoluzionari» e far capire loro che solo attraverso l’abbattimento della società capitalistico-borghese, e nel quadro del passaggio del potere al proletariato, era possibile realizzare simili provvedimenti. Questo perché in Russia un sistema bancario centralizzato, strettamente legato ai gangli fondamentali della grande produzione industriale, controllava le terre – per la gran parte ipotecate – dunque la confisca delle terre avrebbe significato la confisca di somme ingenti del capitale bancario; solo attraverso la fusione e nazionalizzazione del sistema bancario, posto sotto il controllo del potere dei soviet, la confisca della grande proprietà agraria era possibile e solo il proletariato – interessato alla abolizione dei rapporti sociali di produzione borghesi – poteva realizzarlo.
Come già accennato per Lenin la fase della rivoluzione borghese aveva già esaurito il suo corso e dopo il passaggio del potere della monarchia ad una repubblica democratica borghese, ora il potere doveva passare ai soviet perché «in tre anni la guerra aveva fatto progredire la Russia di trent’anni». Nella nuova fase il proletariato e i contadini poveri erano le sole forze in grado di porre fine alla guerra imperialista – in cui restavano invischiati gli interessi della borghesia russa al potere – realizzare una pace democratica e compiere i primi passi verso il socialismo. I socialisti-rivoluzionari rappresentavano invece non gli interessi dei contadini poveri ma quelli delle classi agrarie agiate e consentivano alla borghesia di esercitare la sua influenza e direzione nei confronti delle sterminate masse contadine, di conseguenza, grande cura doveva essere dedicata dai proletari nel lavoro di spiegazione e convincimento verso le classi più povere, nel lavoro per far conseguire alle posizioni bolsceviche la maggioranza e realizzare il passaggio di potere dal governo provvisorio ai soviet.
Per ottenere questa maggioranza, porre fine al compromesso tra borghesia e contadini, ed eliminare l’influenza e la direzione della prima sui secondi, Lenin non esita ad assumere nel programma bolscevico le posizioni dei socialisti-rivoluzionari sulla questione agraria, anche se queste non erano certo una soluzione socialista del problema contadino e nel spiegarne le ragioni ancora una volta sottolinea la necessità per i marxisti di saper comprendere le lezioni della realtà concreta.
«I Contadini vogliono conservare la loro piccola azienda, ripartire le terre in parti uguali e pareggiarle di nuovo periodicamente… Sia. Non un solo socialista ragionevole si allontanerà dai contadini poveri per tale questione. Se si confiscano le terre vuol dire che il dominio delle banche è colpito alla base; se si confiscano le scorte vuol dire che il dominio del capitale è colpito alla base e che, quando il proletariato prenderà il potere politico, il resto verrà da sé, il resto verrà dalla forza dell’esempio e sarà suggerito dalla pratica (…) la vita mostrerà con quali modificazioni di forma ciò si realizzerà. Questo è secondario. Noi non siamo dottrinari: la nostra dottrina non è un dogma ma una guida per l’azione. Non abbiamo la pretesa di dire che Marx e i marxisti conoscono tutti gli aspetti concreti della via che conduce al socialismo. Queste sono sciocchezze: sappiamo dove porta questa via, sappiamo quali forze sociali ce la faranno seguire, ma concretamente, praticamente, essa sarà indicata dall’esperienza di milioni di uomini, quando si avvieranno»13.

3) 1921-1922, il mutato contesto internazionale, la NEP, e la teoria del «fronte unico».

La terza ed ultima tappa di questa mia riflessione, si sviluppa in un contesto carico di luci ed ombre per le sorti della rivoluzione bolscevica e del movimento comunista internazionale, come quello che contraddistingue i Congressi dell’Internazionale Comunista tra il 1921 e il 22. Particolarmente interessante dal nostro punto di vista è soprattutto il III Congresso e in esso il Rapporto sulla tattica esposto il 5 luglio 1921. In questa relazione Lenin concentra la sua attenzione sulla mutata condizione dei due fronti fondamentali della lotta per i comunisti di tutto il mondo: quello internazionale e quello interno alla Russia sovietica.
Per quanto riguarda il primo egli descrive una situazione che per un verso è contraddistinta dall’odio e dall’ostilità da parte delle borghesia mondiale nei confronti della Russia, ma per un altro anche dal fallimento di tutti i tentativi d’intervento militare intrapresi dalle grandi potenze capitaliste contro di essa. Oltre a ciò registra il consolidarsi di un forte movimento contro la guerra alla Russia tra le masse popolari di quelle stesse nazioni, che contribuisce ad alimentare in esse anche il movimento rivoluzionario; il tutto in un contesto nel quale le contraddizioni tra le potenze capitalistiche si acuiscono ogni giorno di più. Proprio la compresenza di questi fattori ha fino a quel momento impedito che l’odio della borghesia si fosse tradotto nel soffocamento della Russia, fino a determinare una nuova fase di equilibrio. Nei primi quattro anni di vita della Russia socialista si è assistito alla fase della lotta aperta [guerreggiata] della borghesia internazionale contro di essa, che ha finito per porla al centro delle questioni di politica internazionale.
Nel descrivere la nuova fase di equilibrio, conseguente ai fallimenti di aggressione militare – Lenin precisa che si tratta di un equilibrio instabile e relativo, perché sia nei paesi capitalistici che in quelli soggetti a dominio coloniale, si andava accumulando tanto di quel materiale infiammabile che insurrezioni, conflitti e rivoluzioni sarebbero potute scoppiare improvvisamente e inaspettatamente in qualsiasi momento. Compito dei comunisti in questa fase è saper sfruttare questa tregua ed adattare la propria tattica alla nuova situazione.
Quando la Russia ha intrapreso il processo rivoluzionario ciò è avvenuto perché una serie di circostanze ha spinto i comunisti a farlo, nella convinzione che la rivoluzione internazionale sarebbe intervenuta in soccorso a garantirne la vittoria, o comunque questa avrebbe dato un impulso decisivo ad una nuova grande stagione rivoluzionaria sul piano internazionale. I comunisti russi erano coscienti che se la rivoluzione mondiale non fosse scoppiata, la vittoria della rivoluzione proletaria non sarebbe stata possibile e l’esperienza russa sarebbe stata soffocata. Nonostante ciò i comunisti russi hanno fatto di tutto per salvaguardare e consolidare il sistema sovietico, ben sapendo che quel lavoro costituiva il miglior sostegno possibile alla rivoluzione mondiale. La realtà non aveva assecondato le attese, la rivoluzione non era scoppiata nell’occidente progredito, però essa tendeva comunque a svilupparsi – seppur in modo non lineare – tanto è vero che grazie ad essa la potente borghesia mondiale non era riuscita a uccidere la Rivoluzione d’ottobre.
La situazione nuova poneva per Lenin una necessità inderogabile: «preparare a fondo la rivoluzione e fare uno studio approfondito del suo sviluppo concreto nei paesi capitalistici più avanzati (…) approfittare di questa breve tregua per adattare la nostra tattica a questa linea a zigzag della storia.». La questione centrale che Lenin pone nella nuova fase è nuovamente la conquista della maggioranza: «Quanto più organizzato è il proletariato di un paese capitalisticamente sviluppato, tanto maggiore serietà la storia esige da noi nella preparazione della rivoluzione, tanto più a fondo dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia»14.
Quando Gramsci delinea il famoso concetto analitico relativo al passaggio dalla «guerra manovrata» alla «guerra di posizione» lo fa ancorandosi proprio a questo intervento di Lenin nel quale egli scorge un modo di concepire lo sviluppo della rivoluzione mondiale ben diverso da quello di Trotsky. In queste note Gramsci propende per l’idea che la tesi della «rivoluzione permanente» altro non sia che il riflesso politico della teoria della «guerra manovrata» – che secondo Gramsci si sviluppa tra il marzo del 1917 e il marzo 1921 – vale a dire il riflesso della teoria dell’assalto al potere in un paese come la Russia nel quale la società civile era «primordiale e gelatinosa» e lo Stato era tutto. «In questo caso [precisa Gramsci] si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un Occidentalista era in realtà un cosmopolita cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici era profondamente nazionale e profondamente europeo»15.
In un contesto siffatto per Lenin assume una centralità assoluta la questione coloniale, verso la quale la gran parte dei partiti aderenti alla Seconda Internazionale avevano assunto un atteggiamento sentimentale e meramente moralistico di simpatia per i popoli coloniali e semicoloniali oppressi, ma che considerava il movimento anticoloniale come privo di importanza ai fini della lotta generale per il socialismo. I comunisti invece per Lenin dovevano prendere atto che dall’inizio del XX secolo centinaia di milioni di individui agivano come «fattori rivoluzionari autonomi attivi». Lenin – prima di chiunque altro – aveva raggiunto la piena consapevolezza che nelle future battaglie per la rivoluzione mondiale le lotte anticoloniali – che tendevano prima alla liberazione nazionale, ma che si sarebbero poi inevitabilmente rivolte contro l’imperialismo – avrebbero assunto una funzione rivoluzionaria ben più importante di quanto ci si potesse attendere. Proprio questa consapevolezza portò l’Internazionale Comunista ad investire risorse ed energie in queste lotte, facendosi carico di tutti i problemi connessi alla preparazione ed al sostegno delle lotte di liberazione nazionale. Questo impulso iniziale, e la conseguente assunzione di responsabilità storica, sono stati fondamentali per aprire una nuova pagina nella storia dell’umanità che ha portato nel corso del novecento all’emancipazione dal giogo coloniale la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Ma è ovviamente nelle considerazioni sul fronte interno alla Russia, che vanno ricercati i concetti essenziali della politica delle alleanze e della questione contadina. In esso Lenin registra dei mutamenti legati all’organizzarsi delle vecchie classi dominanti materializzatosi soprattutto con il costituirsi di un fronte politico della borghesia russa in esilio, che vede uniti quotidiani e partiti dei grandi proprietari terrieri e della piccola borghesia, la quale dispone di sufficienti legami con la borghesia straniera da ricevere i finanziamenti necessari a mantenere in vita tutti i mezzi e gli strumenti creati per combattere la rivoluzione sovietica.
Nell’analizzare questo fenomeno Lenin sottolinea che se al momento della presa del potere da parte dei bolscevichi la borghesia era disorganizzata e non sviluppata politicamente, tanto da non essere in grado di esercitare una egemonia reale sulla società, ora, a distanza di quattro anni, questa era riuscita a raggiungere il livello di consapevolezza e sviluppo politico della borghesia occidentale. La borghesia russa aveva cioè subito una terribile sconfitta, ma aveva poi compreso la lezione della storia e si era riorganizzata in modo conseguente; tutto questo complicava enormemente il processo di transizione al socialismo, per la persistenza di una dura lotta di classe anche dopo la presa del potere da parte del proletariato, all’interno della quale bisognava tenere ben a mente che l’istinto e la coscienza di classe delle classi dominanti è per Lenin, in linea generale, più forte rispetto a quello delle classi oppresse; tutto questo imponeva delle necessità tattiche nuove alle quali si doveva prestare estrema attenzione.
Nel porre la necessità di un diverso atteggiamento del proletariato russo verso la grande borghesia e la vecchia proprietà fondiaria da una parte, e la piccola borghesia dall’altra, Lenin inizia a delineare il nuovo quadro tattico dei comunisti russi che sta alla base della NEP. Se rispetto alla prima infatti non era possibile altro rapporto al di fuori della lotta di classe più netta e aperta, verso la seconda si imponeva un tipo di relazione di altra natura dopo gli anni del «comunismo di guerra».
Nei paesi occidentali la piccola proprietà – che Lenin definisce l’ultima classe capitalistica – costituiva un gruppo sociale oscillante tra il 30 e il 50% della popolazione complessiva; in Russia le masse contadine erano invece la stragrande maggioranza della popolazione, dunque verso questa classe il rapporto doveva basarsi su di una alleanza molto stretta in grado di sostituire l’egemonia esercitata su di essa dalla grande borghesia con quella del proletariato. «Abbiamo concluso un’alleanza con i contadini che difendiamo in questo modo: il proletariato libera i contadini dallo sfruttamento della borghesia, dalla sua direzione e influenza e li conquista alla sua causa per vincere assieme gli sfruttatori»16.
Ancora più significativo poi, per comprendere appieno in che modo Lenin valuta le dinamiche attraverso cui le masse contadine subiscono l’egemonia delle classi dominanti è il passaggio successivo. «I menscevichi ragionano in questo modo: i contadini costituiscono la maggioranza; noi siamo dei democratici puri, quindi è la maggioranza che deve decidere. Ma poiché i contadini non possono essere indipendenti, ciò praticamente non significa altro che la restaurazione del capitalismo».
Nella rivoluzione e attraverso la riforma agraria, i bolscevichi hanno saputo esercitare questa direzione e influenza, e lo schieramento delle masse contadine durante la guerra civile lo stava a dimostrare. Nella nuova situazione, data da una capacità organizzativa inedita della borghesia russa, la semplice alleanza militare non era più sufficiente, se ad essa non si fosse ad affiancata l’alleanza economica.
Sette anni di guerra ininterrotta, lo stato d’eccezione e una politica necessitata dalla guerra civile, avevano determinato delle privazioni per le masse contadine oramai intollerabili, che andavano profondamente modificate. Nella primavera del 1921 si determinò infatti una paralisi dell’ intera economia russa, accompagnata dai cattivi raccolti, dalla mancanza di foraggio, dalla scarsità di combustibile.
«Dovevamo mostrare immediatamente alle grandi masse contadine di essere pronti, senza allontanarci affatto dal cammino rivoluzionario, a mutare la nostra politica in modo che i contadini potessero dire: i bolscevichi vogliono migliorare subito e ad ogni costo la nostra intollerabile situazione (…) abbiamo cambiato la nostra politica economica obbedendo esclusivamente alle circostanze pratiche e alle necessità che derivano dalla situazione»17.
La disastrosa situazione produttiva imponeva dunque un mutamento nella politica economica, che si rendeva tanto più necessaria, quanto più i rapporti di alleanza tra proletariato e classe contadina rischiavano di essere compromessi. Solo sulla base di quella alleanza si rendeva possibile per Lenin la conservazione del potere statale sovietico e la funzione dirigente del proletariato.
Il primo mezzo che viene individuato per segnare questa svolta di politica economica è l’imposta di natura, in base alla quale la fabbrica socializzata dava al contadino i suoi prodotti in cambio del grano. Il contadino dava così una parte dei suoi prodotti sotto forma d’imposta e un’altra in cambio dei prodotti dell’industria socialista, oppure mediante lo scambio di merci.
Questa era per Lenin una misura necessaria per passare da una pura «alleanza militare» – come quella che aveva consentito la vittoria sulle armate bianche – ad una«alleanza economica», perché in un paese come la Russia, con un livello di arretratezza tecnico-produttiva così forte, e soprattutto nel quale le masse contadine costituiscono la maggioranza della popolazione, solo questa poteva consolidare lo Stato sovietico e creare attraverso il «capitalismo di Stato» – vale a dire il regime di concessioni all’iniziativa privata dei capitali stranieri di una parte della produzione – le condizioni per la transizione socialista.
Lenin era consapevole che una misura come questa avrebbe anche creato nuovi problemi, perché l’imposta in natura significa libertà di commercio, dato che il contadino dopo aver pagato l’imposta è poi libero di vendere o scambiare quel che gli rimane del raccolto. Libertà di commercio significa capitalismo, ma per Lenin, nel quadro della nuova politica economica, si tratta comunque di capitalismo alle condizioni poste dalla società sovietica, cioè capitalismo di Stato; dunque esso è controllato e riconosciuto e il suo sviluppo non è a vantaggio della borghesia ma del proletariato.
La NEP si imponeva pertanto come necessità impellente per consentire alla Russia quel balzo nello sviluppo delle sue forze produttive e per resistere ad una borghesia ancora forte, che riusciva ad esercitare la sua lotta di classe anche all’interno della società sovietica, ma soprattutto, e questo aspetto va rimarcato con forza, si imponeva come necessaria di fronte al mancato divampare delle rivoluzioni in occidente e all’accerchiamento che la Russia subiva da parte delle grandi potenze capitalistiche.
In merito alla questione delle alleanze e alla direzione delle masse contadine, non è secondario sottolineare lo scontro che sempre al III Congresso si determinò tra Lenin e le posizioni della direzione del PCd’I. Umberto Terracini, in rappresentanza del partito italiano, si espresse infatti a favore della cosiddetta teoria dell’«offensiva», che negava la necessità della conquista della maggioranza del proletariato come premessa di un’efficace azione rivoluzionaria. Secondo questa teoria infatti, sarebbe stata sufficiente l’offensiva di piccoli gruppi rivoluzionari, che avrebbero trascinato poi le forze necessarie al successo. Con questa posizione, che rappresentava una fedele applicazione delle tesi di Bordiga, il PCd’I si collocava nell’ambito dell’opposizione di sinistra all’Esecutivo dell’Internazionale, sostenuta in particolare dai comunisti tedeschi.
Terracini e i «sinistri» tedeschi [come li definì Lenin], contestarono in particolare le tesi sulla tattica presentate da Radek, nelle quali questi rilevava il riflusso generale dell’ondata rivoluzionaria, l’allontanarsi della conquista del potere negli altri paesi europei e la necessità di predisporre una tattica nuova, più adatta alle mutate condizioni. Il processo che avrebbe dovuto portare alle rivoluzioni nel resto d’Europa, si rivelava in sostanza per Radek, ben più lungo di quanto era stato preventivato nel passato e in esso si sarebbero potute succedere vittorie e sconfitte per il movimento comunista europeo. Questo spinse Radek e tutto l’Esecutivo dell’Internazionale, a lanciare la parola d’ordine della conquista delle grandi masse lavoratrici, per fare dei partiti comunisti europei, non più soltanto piccoli gruppi di avanguardia, ma «grandi eserciti del proletariato mondiale».
La replica di Lenin a Terracini, fu durissima : «Compagni, con grande rammarico debbo limitarmi a un’autodifesa. Dico con mio grande rammarico, perché, dopo aver ascoltato il discorso del compagno Terracini e dopo aver visto gli emendamenti delle tre delegazioni, desideravo vivamente passare all’offensiva: a vero dire, contro le opinioni sostenute da Terracini e da queste tre delegazioni, una azione offensiva è necessaria. Se il congresso non condurrà un’energica offensiva contro simili errori, contro simili sciocchezze «di sinistra», tutto il movimento sarà condannato alla rovina»18.
Per Lenin Terracini commetteva diversi errori dati da un’analisi superficiale e schematica e da un avventurismo incosciente, così Terracini riduceva tutta l’azione dei comunisti alla lotta contro centristi e riformisti, – lotta che i bolscevichi avevano già condotto e vinto – riproponendola ora in un contesto decisamente inopportuno, oltre a ciò secondo Terracini in Russia la rivoluzione trionfò malgrado il partito fosse piccolo e non si fosse curato di conquistare la maggioranza.
Al contrario di quanto sostenuto da Terracini, per Lenin in Russia si vinse perché la rivoluzione fu preparata per tempo nel corso della guerra, quando i bolscevichi si preoccuparono di conquistare non solo la maggioranza della classe operaia ma di tutte le classi sfruttate, a partire dalle masse contadine, tramite la parola d’ordine della pace ad ogni costo e tramite l’assunzione del programma agrario dei socialisti rivoluzionari. «Abbiamo vinto in Russia, non soltanto perché avevamo con noi la maggioranza incontestabile della classe operaia, ma anche perché la metà dell’esercito, subito dopo la presa del potere, fu con noi, e i nove decimi dei contadini, nello spazio di poche settimane passarono dalla nostra parte; abbiamo vinto perché non abbiamo preso il nostro programma agrario, ma quello dei socialisti rivoluzionari e lo abbiamo attuato praticamente»19.
Dunque le difficoltà internazionali spinsero l’Esecutivo dell’IC al III e al IV congresso a lanciare la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», che tanta importanza ha avuto in Gramsci per la definizione della categoria dell’«egemonia»20.
In tal senso anche la NEP andava intesa come un mutamento di tattica per adattarsi alla nuova realtà, così, al IV Congresso, il 13 novembre 1922, Lenin rivendica la scelta di sviluppare una politica economica tendente al «capitalismo di Stato», che, per quanto potesse apparire in un primo momento «strana», si era in realtà rivelata per Lenin un sicuro passo in direzione del socialismo, all’interno di un contesto internazionale assai difficile nel quale non solo le aspettative di esito vittorioso per la rivoluzione in vari paesi dell’Europa occidentale erano state tragicamente disattese, ma si profilava oramai una grave fase di riflusso per il movimento operaio e un’offensiva reazionaria durissima da parte delle classi dominanti. Proprio la difficile situazione internazionale imponeva ai diversi partiti comunisti la necessità di sapersi rapportare tatticamente nella maniera giusta alle diverse situazioni e dunque prepararsi anche ad una ritirata strategica per evitare di essere risospinti indietro ed annullati per diversi anni.
«Dobbiamo non soltanto sapere come agire quando passiamo direttamente all’offensiva e quando vinciamo. In un periodo rivoluzionario, ciò non è poi tanto difficile e neanche tanto importante, o, per lo meno, non è la cosa più decisiva. In un periodo di rivoluzione vi sono sempre dei momenti nei quali l’avversario perde la testa, e se noi l’attacchiamo in uno di questi momenti possiamo vincere con facilità. Ma ciò non significa ancora nulla, perché il nostro avversario, se ha un sufficiente dominio di sé, può in precedenza raccogliere le forze, ecc. E allora può facilmente provocarci ed attaccare, e poi respingerci indietro molti anni. Per questa ragione ritengo che l’idea di prepararci ad una ritirata abbia una grande importanza, e non solo da un punto di vista teorico. Anche da un punto di vista pratico, tutti i partiti che nel prossimo avvenire si prepareranno a passare all’offensiva diretta contro il capitalismo, devono pensare sin d’ora anche al modo di assicurarsi una ritirata»21.
Dunque per Lenin anche la scelta del «capitalismo di Stato» rappresentava una possibile linea di ritirata necessaria a mantenere la posizione in una fase avversa.
La crisi di consenso che la rivoluzione ha vissuto nel corso del 1921, non solo tra i contadini, ma anche tra gli stessi operai, era dovuta per Lenin al fatto che l’offensiva economica si era spinta troppo oltre, senza assicurarsi quella base di consenso che gli era necessaria. Secondo Lenin le masse hanno percepito anche prima del partito che il passaggio diretto alle nuove forme socialiste era al di sopra delle forze effettive della rivoluzione. Fortunatamente però, anche le forze attive della rivoluzione hanno avuto poi modo di rendersene conto, e se questo non fosse accaduto, vale a dire se quelle forze non fossero state pronte ad eseguire una ritirata verso compiti più facili e raggiungibili, la rivoluzione stessa sarebbe stata minacciata fino ad andare incontro alla più completa rovina.
La crisi era iniziata nel febbraio del 1921 ma già nella primavera si decise di passare alla NEP e nel giro di un anno e mezzo da quella svolta, la scelta si era per Lenin dimostrata giusta, dato che aveva consentito alla rivoluzione di uscire vittoriosa da quella che fino ad allora si era dimostrata la sua crisi più grave.

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Uno dei significati politici a mio avviso più importanti dell’«alleanza economica» varata con la NEP è il superamento dell’utilizzo dei mezzi coercitivi dello Stato per imporre alle masse contadine il socialismo; dopo la fine della fase contraddistinta dal «comunismo di guerra», attraverso la NEP, si tentò di percorrere una strada che doveva condurre la maggioranza dei contadini al convincimento volontario circa la superiorità della produzione cooperativa o della grande azienda di Stato rispetto alla piccola proprietà della striscia di terra, vale a dire condurre i contadini volontariamente e senza metodi amministrativi al socialismo. Se la NEP ottenne importanti risultati, tanto che già nell’autunno del 1926 sia la produzione agricola che quella industriale raggiunsero i livelli precedenti alla guerra, è altrettanto vero che la produzione agricola nella sua principale voce, quella cerealicola, rimase sempre al di sotto dei livelli del 1913, dimostrando una indubbia inferiorità produttiva della piccola proprietà rispetto allo stesso latifondo. Questo limite, unitamente al fatto che i tanto attesi capitali esteri arrivarono in entità decisamente trascurabili, determinò un rallentamento grave del processo di industrializzazione che costituiva un ostacolo enorme sulla strada del socialismo. Ora non spetta alla mia relazione di trattare i temi del dibattito economico e politico tra il 1925 e il 1928, né spetta a me soffermarmi sulla scelta adottata da Stalin della collettivizzazione delle campagne e dell’industrializzazione forzata. Di un dato tuttavia bisogna tenere conto e su di esso concludo: Stalin tra il 1928 e il 29 è consapevole che l’esplodere sempre più acuto delle contraddizioni imperialistiche avrebbe potuto condurre nel giro di un decennio ad un nuovo conflitto mondiale potenzialmente letale per l’Unione Sovietica. Ciò imponeva allo Stato scaturito dalla rivoluzione la necessità di compiere un balzo enorme nello sviluppo delle proprie forze produttive per trasformarsi da paese importatore di macchinari industriali in paese industrialmente avanzato ed autosufficiente. Per compiere questo balzo restava un problema insoluto, che anche la NEP non aveva risolto, quello della cosiddetta accumulazione di capitale che si rendeva drammatico nell’urgenza dell’ora. L’URSS non poteva disporre dello sfruttamento coloniale o dei prestiti esteri come i paesi capitalistici, dunque doveva trovare al suo interno le risorse necessarie, e solo un diverso modello di sviluppo nelle campagne poteva fornirle. Ora possiamo discutere a lungo sulle implicazioni di quella scelta e sull’enorme costo sociale che questa comportò, ma è indubbio che essa consentì alla Russia di compiere nel decennio che la separò dalla seconda guerra mondiale, quel balzo che ne impedì lo strangolamento. Di certo la storia non si fa con le supposizioni, ma la grande vittoria sul nazifascismo e il peso determinante assolto dall’URSS ci suggerisce una certezza: senza quella scelta la storia, non solo dell’Unione Sovietica, ma dell’intera umanità, sarebbe stata diversa.

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.