Protezionismo, sovranismo e tanti equivoci su Gramsci.

Sollecitato al dibattito da un mio caro amico, dico la mia qua brevemente (rinviando una trattazione più sostanziosa in altre sedi e con altre forme) su un tema molto caro oggi al composito e contraddittorio movimento sovranista italiano, all’interno del quale l’eclettica interpretazione di Gramsci di Diego Fusaro trova un certo diritto di cittadinanza: la convinzione di poter risolvere molti degli attuali propri problemi attraverso il protezionismo e la semplice riaffermazione della propria sovranità nazionale minacciata. Una risposta comprensibile, visti gli effetti sismici di questa lunghissima “crisi organica” ancora in corso, ma appena una pia illusione astrattamente politica, che poco tiene conto di come è strutturata l’economia mondiale di oggi, tanto più per un Paese come il nostro, storicamente privo di materie prime. Tutta questa enfasi sulle relazioni commerciali, prescindendo dal modello di sviluppo, dal come, perché e per chi produrre quanto meno insospettisce. La stessa strumentalità dei liberisti globalisti di moda qualche anno fa sembra riemergere oggi, con un segno opposto e speculare ma con la stessa struttura ideologica. Pensare di risolvere l’attuale crisi mondiale con il protezionismo o rilanciando il liberoscambio, tralasciando la centralità del conflitto capitale lavoro e mantenendo immutati gli attuali rapporti sociali di produzione e (soprattutto) distribuzione della ricchezza è segno o di superficialità o, in alcuni attori sociali, di malafede. L’unica alternativa valida alle contraddizioni del capitalismo resta il socialismo. In quanto tale, non è progressivo né il protezionismo né il liberoscambismo.

Oltre a questo penso ci sia una buona dose di smemoratezza o poca conoscenza di cosa ha rappresentato il protezionismo nella storia d’Italia, al punto da attribuirgli potenzialità taumaturgiche e progressive. In questa contraddizione vedo una parte delle incomprensioni di Fusaro sull’eredità del pensiero gramsciano, dalla quale deriva la sua aspirazione a far cadere ogni barriera tra fascismo e anti-imperialismo servendosi proprio di Gramsci. In tutta Europa (dalla Grecia alla Francia, dall’Est europeo alla Germania) abbiamo la riemersione di gruppi che si richiamano in forme larvate, dissimulate o palesi al fascismo (con una forza elettorale inedita rispetto a tutto il dopoguerra), capaci di conquistare consensi crescenti nelle periferie, tra i lavoratori e i ceti popolari, eppure per alcuni il tema dell’antifascismo sarebbe chincaglieria da museo non al passo con i tempi. Anzi, secondo loro bisognerebbe chiedere ai rappresentanti di questi movimenti di appoggiare la clava per discutere assieme di anticapitalismo e sovranità nazionale. Di fronte a questo analfabetismo politico di ritorno, alimentato ad arte dall’ambiguità di chi continua ad ammiccare a quel mondo, per fare da ponte con l’altro, “mettere i puntini sulle i” non è esercizio sterile.

Gramsci criticò sempre duramente il protezionismo, perché dietro intravvedeva la moneta di scambio e il fondamento organico su cui si reggeva il Blocco storico tra la borghesia industriale del Nord e i ceti arretrati della proprietà terriera del Sud, con tutte le sue forme insane di dominio e sfruttamento inumano della miseria agraria. Gli equilibri passivi e conservatori dell’Italia, dall’Unità sino al fascismo, si basavano proprio su questa santa alleanza parassitaria tra le classi dirigenti nazionali responsabile del drenaggio permanente di quote enormi di ricchezza prodotta per sostenere intere stratificazioni di classi improduttive. Nelle note su “Americanismo e Fordismo” Gramsci descrive l’essenza della società meridionale proprio per la sopravvivenza di classi generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito

Il compromesso tra industriali e agrari, reso possibile dal protezionismo, attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stesa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. Tuttavia, nella prospettiva storica, questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolveva in un ostacolo allo sviluppo dell’economia industriale e di quella agraria. Ciò ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse.

L’egemonia del Nord sul Sud, si legge nel Quaderno 1, avrebbe potuto assolvere una funzione positiva e progressiva se l’industrialismo si fosse posto l’obiettivo di ampliare la sua base di nuovi quadri, incorporando, non dominando, le nuove zone economiche assimilate. In tal senso l’egemonia del Nord sarebbe stata espressione di «una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo». Una dinamica di questo tipo avrebbe potuto innescare o favorire una rivoluzione economica con carattere nazionale, al contrario l’egemonia non ebbe carattere inclusivo, ossia finalizzata a far venir meno quella distinzione, ma «permanente», «perpetua», nel senso di reggersi su un’idea di sviluppo diseguale tale da rendere la debolezza del Sud un fattore, indeterminato nel tempo, funzionale alla crescita industriale del Nord, come se il primo fosse una appendice coloniale del secondo.

Questo vincolo organico, questa alleanza innaturale, impedì la dialettica (caratteristica delle forme classiche di capitalistico) tra due classi che non dovrebbero essere permanentemente alleate, ma contrapposte, salvo congiunture particolari. In Gran Bretagna dalla dialettica tra industriali e agrari si è originata anche la storia dei partiti e quella parlamentare. In Italia non esisteva la rotazione su base parlamentare, la formazione delle classi dirigenti avveniva per assorbimento e cooptazione fiduciaria, tramite il trasformismo, di singole personalità negli equilibri passivi del Blocco storico. Ciò per Gramsci accadde con i democratici mazziniani, durante e dopo il Risorgimento, quindi si ripeté con i riformisti, il mondo cattolico e infine con il fascismo.

Per questo, infatti, ciclicamente, alle più gravi crisi del giovane Stato unitario (governo Crispi, crisi di fine secolo, ingresso nella prima guerra mondiale, avvento del fascismo) si rispondeva anzitutto con soluzioni extra o antiparlamentari. Senza il protezionismo, dunque, non si spiega la Questione meridionale, né si comprendono le forme di assoggettamento coloniale del Nord verso il Sud. Non casualmente la guerra doganale con la Francia colpì proprio le realtà più dinamiche, le produzioni più qualificate (non assimilate quegli equilibri passivi tradizionali e dunque non protette) dell’economia meridionale. Nella Sardegna, in particolare, il protezionismo coincise con il crollo del suo sistema bancario, la creazione dei monopoli caseari, la gestione schiavista e coloniale delle risorse minerarie. In definitiva, negli degli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, nel vivo della guerra commerciale con la Francia, la regione in cui nacque (1891) e si formò Gramsci, ridusse le proprie esportazioni del 70% trovandosi in una delle sue fasi storiche di maggior crisi e miseria (prolungatasi nell’inizio del nuovo secolo). Senza il protezionismo non si spiega nemmeno la funzione storica del fascismo: garantire la sopravvivenza di due classi improduttive altrimenti destinate ad essere spazzate via dallo sviluppo capitalistico: la piccola borghesia e gli agrari, vera base sociale del movimento di Mussolini.

Pensiamo veramente che le classi dirigenti di oggi (politica e imprenditoriale) siano molto più progressive e meno parassitarie rispetto a quelle di allora, ossia capaci di ragionare come “classe nazionale”, non incline a lucrare con brama speculativa sulle opportunità offerte dal protezionismo economico? Guardandomi intorno, io qualche dubbio lo nutrirei.

Con tutto questo non intendo riaffermare i valori del liberoscambio, come soluzione rivoluzionaria dei nostri problemi di oggi, ci mancherebbe, semmai richiamo l’attenzione su quanto, spesso, siano vuote e poco fondate storicamente alcune parole d’ordine lanciate strumentalmente in pasto all’opinione pubblica. Presentare il liberoscambismo o il protezionismo come panacee di ogni male penso sia illusorio o peggio dettato da malafede. In questo pezzo mi sono limitato a mostrare cosa ha rappresentato il protezionismo nella storia d’Italia (secondo Gramsci) in ragione della natura parassitaria delle sue classi dirigenti, delle forme malsane di sfruttamento della miseria meridionale, degli equilibri sociali passivi connaturati a questo blocco sociale.

Certi “innovatori”, passati recentemente dal comunismo al “sovranismo”, pensano di essere particolarmente originali, in realtà il social-patriottismo non presenta niente di nuovo nella storia, anzi. L’ “assunzione di responsabilità di fronte alla nazione” e un malinteso patriottismo, incapace di vedere gli interessi materiali, dunque le mire imperialiste del proprio Paese, sono alla base della capitolazione della Seconda Internazionale dei lavoratori alla vigilia della Prima guerra mondiale. Anche allora il concetto di Patria (intesa in termini socialmente neutri) soverchiò quello di socialismo e l’idea di Popolo prese il posto di quella di classe, così i partiti socialisti europei non solo votarono in Parlamento i crediti di guerra (esortando “i proletari di tutti i Paesi” a spararsi tra loro anziché unirsi), ma arrivarono ad assumere ruoli ministeriali nei governi bellici. Ci si riflette poco, ma anche questa resa indecorosa è tra i cortocircuiti ideologici responsabili della nascita del fascismo e di tante baggianate concettuali di cui si nutrì il mascellone epilettico, come la supposta dialettica tra “giovani nazioni proletarie” e decrepite “potenze plutocratiche”, attraverso la quale si pretese di sostituire la lotta tra le classi con quella tra le nazioni.

Il paradigma della globalizzazione, forma recente e moderna di “falsa coscienza” della borghesia mondiale, ha prodotto in sequenza due risposte: il movimento “No global”, nella sua fase giovanile; il “sovranismo”, in quella senile. Al di là delle differenze in termini di radicalità nei contenuti e nel linguaggio adoperato, entrambe recano al proprio interno molteplici e contraddittorie influenze, alcune delle quali riconducibili proprio alla concezione che si vorrebbe contestare. Anzitutto la professione “anti-ideologica”, l’affermazione perentoria sul tramonto di ogni vecchia, sorpassata e inattuale contrapposizione ideologica, la cui traccia originaria è ben riconoscibile proprio nella fallimentare teoria sulla “fine della storia”. Già quando definiamo non ideologica la nostra proposta politica, in realtà, stiamo dando corso a una chiara opera di mistificazione ideologica, tra l’altro per niente nuova né originale. Anche il primo fascismo si presentò con questa facciata. Non esiste prospettiva politica a-ideologica, ogni proposta per quanto confusa e contraddittoria sostiene una concezione più ampia, tuttavia, senza una visione organica e coerente del mondo non si va da nessuna parte e, prima o poi, le contraddizioni non risolte o nascoste sotto il tappeto presentano il conto. Ciò è avvenuto per il movimento No Global, di cui oggi abbiamo solo un vago ricordo, lo stesso accadrà per quello sovranista.

Cronache di un Golpe

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Ci sono tanti modi per realizzare un colpo di Stato, non necessariamente con l’uso di scarponi e marce militari. Che il PT abbia palesato molti limiti nella sua azione di governo, sbagliando e dimostrando poco coraggio, è fuori di dubbio, ma non è questo ciò di cui si discute ora, altrimenti i governi verrebbero rovesciati ogni anno. Il punto fondamentale è che sia l’offensiva contro Dilma Rousseff, con il goffo tentativo di impeachment per il quale manca qualsiasi fondamento giuridico, sia quella giudiziaria a Lula, sono parte di un attacco concentrico molteplice e articolato. E, come sappiamo, quando le prove mancano si costruiscono. Non c’è nulla di concreto sul piano giudiziario, però i media hanno (ad arte e preventivamente) creato un clima di odio che, sebbene principalmente rivolto al PT, si nutre di parole d’ordine anticomuniste e di avversione di classe verso qualsiasi ipotesi di politica sociale redistributiva. E’ in corso un’operazione per spostare economicamente, culturalmente, e nelle relazioni internazionali, il Paese a destra.  Così, il giudice Moro, protagonista delle azioni legali contro Dilma e Lula, anch’esse sotto molti aspetti procedurali eversive, non è una parte terza, al contrario, è una figura riconducibile al mondo della destra liberista, non casualmente già si fa il suo nome come candidato alle prossime presidenziali a capo di quel blocco sociale.

Ora il golpe-impeachment contro Dilma va verso il suo surreale finale: un parlamento, corrotto sino al midollo, mette in stato d’accusa il presidente legittimamente eletto appena due anni fa per una modulazione del bilancio sempre adottata dai suoi predecessori. A prescindere dal giudizio soggettivo sul governo disarcionato con la forza, resta una ferita alle regole democratiche minime, perpetrata scientemente grazie al ruolo non solo attivo ma militante dei principali media nazionali. Le tanto decantate norme procedurali e garanzie costituzionali, tipiche della retorica liberaldemocratica, evaporano. Quando si mobilitano gli apparati egemonici privati delle classi dominanti, contano solo i rapporti di forza (delegati) tra maggioranza e minoranza, anche se frutto di pratiche trasformistiche, effimere e prive di qualsiasi legittimazione popolare.

Superata anche l’ultima tappa di questa farsa, il governo, privo di qualsiasi legittimazione popolare e affermatosi brutalmente, violando norme e buon senso, procederà senza più alcun freno alla privatizzazione delle grandi risorse naturali nazionali. Acqua, petrolio e foreste sono nel mirino degli interessi economici speculativi che fanno il tifo per questo golpe. Sarà una semplice coincidenza, ma il governo illegittimo di Temer ha già calendarizzato, per il 12 settembre prossimo, la discussione finalizzata alla privatizzazione della riserva naturale di acqua del Guarani, una delle maggiori al mondo, ai gruppi Nestlé e Cocacola.  Ma si sa, i teorici del pensiero liberale hanno sempre affermato che la libertà dei cittadini è inversamente proporzionale all’estensione delle attività dello Stato; la cosiddetta sfera dell’individualità privata è “sacra e inviolabile”, specie perché dietro alla retorica sulle cosiddette libertà fondamentali c’è sempre posto per il proprio portafoglio.

Viste le premesse non c’era da dubitarne, così la discussione in Senato del 29 agosto, ha mostrato tutta l’evidenza di una operazione illegittima che si intende far passare come impeachment. Non solo quella modulazione di bilancio fu adottata dai presidenti precedenti, ma anche da governatori dei singoli Stati che ora, da senatori, contestano la stessa pratica negli atti della Rousseff. Il senso del pasticcio istituzionale trova però conferma anzitutto in un fatto che testimonia il cortocircuito procedurale in corso: la maggior reprimenda mossa (persino dall’avvocato dell’accusa) alla Presidentessa allontanata, sarebbe la sua responsabilità nella crisi economica del Paese (disoccupati, indebitamento statale, inflazione ecc., ecc.). Senza entrare nel dettaglio di una simile affermazione, chiaramente opinabile, si parte da una obiezione del tutto politica per emettere una sentenza di condanna giuridica, con una sovrapposizione dei due piani tale da far rabbrividire anche un profano di diritto costituzionale. Se in Italia dovessimo mettere in stato di accusa i presidenti del consiglio su questa base assisteremmo almeno a un procedimento di Impeachment all’anno.

Ma al di là di tutto, ieri, Dilma Rousseff si è difesa per 15 ore con decisione e dignità dalle accuse mossegli, affermando di aver avuto paura due sole volte nella sua vita: quando fu torturata e seviziata per giorni dai militari, durante la dittatura, e quando scoprì di avere il cancro. In questo momento, ha concluso, la sua unica paura è la morte della democrazia nel suo Paese. Come darle torto? Forse in Europa ancora non si comprende la gravità di quanto sta accadendo in Brasile e la necessità di una mobilitazione straordinaria di solidarietà internazionale. Purtroppo, temo, lo si capirà troppo tardi.

L’esito tragico e autoritario di questa vicenda, che sta buttando un enorme Paese sull’orlo della guerra civile, è parte di una strategia golpista seppure con le forme nuove di una realtà caratterizzata da un elevato sviluppo della società civile e dunque degli apparati privati di egemonia delle classi dominanti. Gramsci, nel Quaderno 13, lo chiarisce bene: per imprimere una svolta reazionaria negli equilibri passivi di un Paese moderno sul piano degli apparati egemonici, non è necessario un Golpe militare di tipo tradizionale. Piuttosto torna centrale la funzione preventiva e politica della polizia e degli apparati giuridici, unitamente al controllo monopolistico degli organi preposti alla formazione dell’opinione pubblica.

“Nel tempo fino a Napoleone III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo per l’avvento del cesarismo, che si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni militari ecc. Nel mondo moderno, le forze sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il problema. I funzionari dei partiti e dei sindacati possono essere corrotti e terrorizzati senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio (…) l’espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e private (politico-private, di partiti sindacali) e la trasformazione avvenuta nell’organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell’insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, interi partiti «politici» e altre organizzazioni economiche di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo”.  (Antonio Gramsci, Quaderno 13, paragrafo 26, “Egemonia politico-culturale”)

Libertà, uguaglianza e contenuto universale della democrazia.

Nel dibattito politico della sinistra di classe, essenzialmente nell’ambito dell’eurocomunismo, per molto tempo, si è discusso dell’esigenza di affermare il “valore universale della democrazia”, dunque di conciliare questo principio con i valori di uguaglianza e giustizia sostanziale propri del socialismo. E’ un discorso ineccepibile, che nasce dalle contraddizioni della nostra storia novecentesca ma che, purtroppo, a guardare la realtà concreta, rischia di apparire maledettamente astratto. Nella retorica democratica del mondo occidentale un punto su cui sempre si insiste è il primato della volontà popolare espressa nel voto, dunque il rispetto dei governi legittimamente eletti. Andando però a vedere bene cosa significa storicamente tutto ciò bisognerebbe aggiungere: “sempre che questa volontà e i governi da essa espressi stiano nel campo dei nostri valori” (primato delle leggi di mercato e tutela dell’ordine sociale nei termini classici di questo modo di produzione). La strategia della tensione da noi, il Cile di Allende, ma anche più recentemente la Bolivia, il Brasile e soprattutto il Venezuela ci dimostrano come il risultato del voto interessi ben poco i grandi santoni del mondo politico e intellettuale liberale, sovente, pronti a utilizzare qualsiasi mezzo, compresa la scorciatoia autoritaria dei colpi di Stato, per tutelare i propri interessi minacciati. Per tutte queste ragioni, è lecito credere nel valore assoluto della democrazia, ma solo in un contesto nel quale una o più classi non si trovino in una condizione di abissale vantaggio in termini di risorse economico-materiali di cui disporre nella competizione politica, sia per costruire il proprio universo ideale e rappresentativo, sia per, molto più prosaicamente, corrompere il mondo intellettuale e comprare chi è costretto dal bisogno. Insomma, possiamo fare affidamento sul valore universale della democrazia solo in un contesto nel quale il privilegio e la differenza economico sociale non siano di ostacolo all’effettivo esercizio dell’uguaglianza formale.

Renzo Laconi, storia ed emancipazione della Sardegna.

Renzo Laconi, storia ed emancipazione della Sardegna.

Gianni Fresu

Relazione tenuta al Convegno “Centenario di Renzo Laconi”, CID, Rettorato dell’Università di Cagliari (2/3 marzo 2016)

La biblioteca di Laconi[1], attualmente custodita dalla Fondazione “Giuseppe Siotto”, rappresenta in sè uno straordinario patrimonio, configurandosi come una chiave di accesso utile a indagare la complessità umana e culturale di colui che la creò. Di questa vasta e articolata biblioteca, composta di quasi 6000 titoli, Roberto Moro e Franco Satta ci hanno fornito tutte le coordinate al termine di un lungo e minuzioso lavoro di catalogazione, condotto con le più aggiornate tecniche biblioteconomiche. Dunque, per approfondirne la conoscenza, rinvio al loro catalogo, limitando queste brevi considerazioni a quanto di mia competenza. Quando fu realizzato questo catalogo, personalmente mi occupai di accompagnarne la realizzazione con una sintetica biografia umana e politica di Renzo Laconi.

La straordinaria vastità della biblioteca di Laconi ci restituisce intatto il tracciato di un percorso politico ed intellettuale contraddistinto da una molteplicità di direzioni e interessi, alcuni anche sorprendenti. Una biblioteca specchio fedele della sua personalità e testimone del tentativo di cui, insieme ad altri, Laconi fu parte: immettere la storia delle classi subalterne sarde, con tutto il suo retroterra di tradizioni popolari e manifestazioni culturali, nel grande alveo della storia generale, della politica nazionale ed internazionale. Se la Sardegna esprimeva storicamente il problema di una soggettività marginale e subalterna ciò valeva ancora di più per le sue masse popolari inquadrate in livelli di assoggettamento molteplice.

La caricatura di Salvini, un grande e pericoloso errore.

La caricatura di Salvini, un grande e pericoloso errore.

Gianni Fresu

La ciclicità con cui a sinistra ricadiamo negli stessi errori, come una storia che ci riporta sempre e inevitabilmente al suo punto di partenza, è forse una delle ragioni della nostra attuale marginalità politica e sociale. Mi riferisco alla sufficienza con cui si guarda a un fenomeno nuovo e di dimensioni per nulla irrilevanti nel mondo della destra. Salvini sembrerà pure ebete ma non è per niente scemo. Facciamo attenzione a non limitarci alle caricature dei nostri avversari, pensando che tutti lo percepiscano come lo vediamo noi. Non dimentichiamo che, a suo tempo, quando un altro ammaestratore di folle emerse dai disastri della guerra in tanti nel nostro campo lo derisero, ma soprattutto lo sottovalutarono, ritenendo il suo movimento un fenomeno folcloristico di sbandati senza ideologia né futuro: nel marzo 1921 (appena sette mesi prima della Marcia su Roma) il II Congresso del Partito comunista, non solo lo trascurò al punto da prevedere ogni cosa tranne la sua possibile affermazione, ma quasi non ne fece menzione nelle sue Tesi; i socialisti ritenevano di aver chiuso la partita con Mussolini nel 1915; i liberali si illusero di poterlo assorbire negli equilibri passivi tradizionali del vecchio trasformismo, come in passato avevano fatto con mazziniani, cattolici e socialisti riformisti.

Come il suo più illustre predecessore, anche Salvini (nel suo piccolo) sembra aver scoperto la pietra filosofale del più tradizionale sovversivismo reazionario: sobillare/eccitare l’inquietudine dei ceti medi declassati dalla crisi, per ottenerne il consenso; occhieggiare alla grande borghesia spaventata, per difenderne organicamente gli interessi. Essere riuscito a nazionalizzare la Lega, saldando il tradizionale approccio xenofobo del suo movimento all’odio nazionalista fascistoide, oggi polverizzato in una galassia di sigle insignificanti, ma presente (soprattutto culturalmente) nel Paese, è un colpo da maestro, gli va riconosciuto. Soprattutto perché il tutto avviene in un quadro di profonda crisi tanto della destra sociale, quanto di quella liberista. Con una fava, egli si propone per rappresentare entrambe, non è detto che ci riesca, ma ha già portato la Lega fuori dal recinto del Nord (senza più ricorrere all’intermediazione di Berlusconi), candidandola a guidare un nuovo ipotetico blocco sociale conservatore, non è poco. Invece di valutare in termini politici tutto ciò preferiamo limitarci a considerarlo poco più che un imbecille, tuttavia, non occorre essere cervelloni per mettere nel sacco un popolo (raramente hanno infatti governato dei geni) occorre però avere intuito politico, che spesso, invece, i geni non hanno.

A noi può sembrare incredibile che si possa abboccare ai suoi richiami demagogici, senza tenere conto delle sue contraddizioni, del passaggio incoerente dall’antimeridionalismo al nazionalismo, ma pensiamo sia la prima volta o una sua esclusiva storica? Guardiamo alle posizioni del primo movimento fascista nel 1919 (anticlericale, anticapitalista, con punti programmatici della tradizione socialista) e poi prendiamo le posizioni totalmente diverse espresse da Mussolini appena due anni dopo, nel suo primo intervento in Parlamento del 21 giugno 1921 o nel Congresso fondativo del PNF del novembre 1921. Qualcuno pensa che, quando determinate categorie sociali decisero di puntare su di lui, la sua incoerenza ideologica e programmatica fosse un ostacolo? Uno dei più acuti osservatori del fascismo, Angelo Tasca Tasca, nel 1938, riconosce a Mussolini, specie nei tumultuosi avvenimenti tra il 1921 e il ’22, una spregiudicatezza tattica e una determinazione personale non rintracciabile nei suoi avversari politici. Mussolini riesce così a sfruttare a proprio vantaggio l’interminabile situazione di crisi e instabilità governativa: da un lato facendo opera di interdizione verso ogni operazione tesa a combatterlo, isolarlo o anche solo a escluderlo; dall’altro utilizzando tutti i mezzi a disposizione per il conseguimento del suo obiettivo, la conquista del potere e soprattutto il governo della politica estera italiana. La condotta di Mussolini disorienta le vecchie classi dirigenti liberali perché ogni contenuto ideologico, programmatico o propagandistico è utilizzato solo in rapporto alle esigenze immediate. Mussolini non si lega mai ad una affermazione o impostazione ideologica ed è sempre pronto a rovesciare una sua precedente presa di posizione se ciò gli è utile strategicamente:

“L’immensa varietà degli eventi e delle passioni, i molteplici fattori che si annodano nella realtà italiana, e che anche oggi, a distanza di tempo, non è facile districare, subiscono nell’animo di Mussolini una straordinaria semplificazione, mentre i suoi avversari vi si ritrovano con difficoltà. Poiché non seguono fino in fondo né la logica dell’ambizione, né quella delle passioni ideali, costoro procedono esitando, inciampando a ogni passo, aggrappandosi a vecchie formule ed a vecchie combinazioni che la marcia degli avvenimenti  ha  già condannato. Mussolini li supera anche perché, pur seguendo con attenzione vigile e circospetta i minimi fatti che possono modificare i rapporti di forze nella vita politica del paese, mira più lontano. Vuol conquistare il potere rapidamente e con tutti i mezzi, perché vuole arrivare a dirigere la politica estera dell’Italia: là solamente può trovare un campo sufficientemente vasto per la sua ambizione e portare a termine l’avventura cominciata nell’ottobre 1914 con la sua rottura col Partito socialista”[1].

Magari non sarà Salvini l’erede di questa tradizione, ma prima sbeffeggiarlo lo prenderei sul serio, molto sul serio, forse così esageriamo in prudenza però, poi, non siamo noi a fare la figura degli ebeti, come drammaticamente ci è già accaduto, quando il nostro sorriso sardonico si è trasformato in una paresi, magari non permanente ma durata venti lunghi anni. So che è pedante farlo, ma ricorrere a questa citazione (mai come oggi attuale) mi pare utile a chiudere questa breve, amara, riflessione:

“La tendenza a diminuire l’avversario. Mi pare che tale tendenza di per se stessa sia un documento della inferiorità di chi ne è posseduto. Si cerca infatti di diminuire l’avversario per poter credere di esserne vittoriosi; quindi in tale tendenza è anche istintivamente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza, ossia un inizio di autocritica, che si vergogna di se stessa, che ha paura di manifestarsi esplicitamente e con coerenza sistematica, perché si crede nella «volontà di credere» come condizione di vittoria, ciò che non sarebbe inesatto se non fosse concepito meccanicamente e non diventasse un autoinganno (contiene una indebita confusione tra massa e capi e finisce coll’abbassare la funzione del capo al livello della funzione del più arretrato e incondito gregario), Un elemento di tale tendenza è di natura oppiacea: è proprio dei deboli abbandonarsi alla fantasticheria, sognare a occhi aperti che i propri desideri sono realtà, che tutto si svolge secondo essi: da una parte l’incapacità, la stupidaggine, la barbarie, la paurosità, dall’altra le più alte doti di carattere e di intelligenza: la lotta non dovrebbe essere dubbia e già pare di tenere in pugno la vittoria. La lotta rimane lotta sognata e vinta in sogno: nella realtà, da dovunque si cominci ad operare, le difficoltà appaiono gravi, e siccome si deve cominciare sempre necessariamente da piccole cose (poiché, per lo più, le grandi cose sono un insieme di piccole cose), viene a sdegno la «piccola cosa»: è meglio continuare a sognare e rimandare tutto al momento della «grande cosa». La funzione di sentinella è gravosa, noiosa, defatigante; perché «sprecare» così la forza umana e non conservarla invece per la grande battaglia eroica? e così via. Non si riflette poi che se l’avversario ti domina e tu lo diminuisci, riconosci di essere dominato da uno che consideri inferiore? Ma come è riuscito a dominarti? Come mai ti ha vinto ed è stato superiore a te proprio in quell’attimo decisivo che doveva dare la misura della tua sua periorità e della sua inferiorità? Ci sarà stata di mezzo la «coda del diavolo». Ebbene impara ad avere la coda del diavolo dalla tua parte”[2].

 

 

 


[1] A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Laterza, Bari, 1972, pag. 328, 329.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1885

 

La solitudine della classe operaia sarda.

La cronaca socio economica della nostra regione è quotidianamente segnata dalle vertenze del mondo del lavoro, nelle quali ha modo di manifestarsi l’agonia apparentemente irreversibile del suo superstite apparato produttivo industriale. Dalle miniere al tessile, dal siderurgico al pretrolchimico, praticamente non esiste comparto esente dallo stillicidio delle chiusure, con relative procedure di mobilità, ammortizzatori sociali e licenziamenti. Tuttavia, non intendo addentrarmi sul fenomeno della desertificazione industriale dell’isola, in sé noto e studiato da anni, bensì soffermarmi sulla condizione di solitudine vissuta dai soggetti che in primo luogo subiscono gli effetti di questo sgretolamento economico produttivo, costretti a forme di lotta sempre più disperate per attirare l’attenzione. Nella realtà sarda di oggi quanto resta della vecchia classe operaia si trova nella peggior condizione oggettiva e soggettiva di sempre dal suo sorgere, perché non solo subisce da decenni un processo di ridimensionamento strutturale, ma vive un drammatico isolamento politico. Per un verso, gli apostoli delle leggi di mercato (oggi prevalenti) la definiscono un residuo storico del Novecento, sopravvissuto solo grazie all’assistenzialismo statale e dunque ne affermano l’inutilità, sollecitando un rapido lavoro di inumazione al becchino. Per un altro, quel che resta della sinistra, insieme a una visione del mondo organica e coerente incentrata sul conflitto capitale lavoro, sembra aver smarrito anche una precisa idea dei suoi referenti sociali, pertanto, di fronte alla crisi in corso si limita a portare una solidarietà inane ai lavoratori, molto prossima a quella delle autorità ecclesiastiche, la visita del vescovo o del parroco al distretto in crisi e l’immancabile invocazione al signore. Infine, gli orientamenti impegnati nel rivendicare l’universo ideale della cosiddetta “sardità”, sovente prigionieri di una visione romantica “dei bei tempi andati” (intendendosi per essi la retorica dei rapporti sociali comunitari, propri del mondo agro-pastorale). Buona parte di loro, non tutti per carità, guarda con indifferenza se non proprio con malcelato disprezzo questo mondo, quasi che, nel suo storico farsi “classe in sé”, gli operai abbiano incarnato il tradimento di civiltà degli “originali” rapporti produttivi sardi. Qualcosa di molto simile all’approccio dei populisti (portatori anch’essi di una ideologia imperniata sulla mistica della piccola proprietà contadina) verso la nascente classe operaia russa di fine Ottocento. L’attuale solitudine della classe operaia sarda è drammatica, in sé persino più grave del suo disarmo strutturale, determinato dall’insieme combinato di due fattori dal pesante carico distruttivo: la tendenza storica alla delocalizzazione nella produzione industriale; la crisi  organica del capitalismo mondiale, dunque le ristrutturazioni da essa generate. Insomma, non solo la classe operaia sarda sembra destinata a non avere più una progenie, non ha nemmeno padri. Ciò accade non solo nel mondo politico, ma anche negli ambienti incensati dell’Accademia, un tempo guida dei cambiamenti storici e ora rimorchio della più spicciola cronaca politica. Non è un caso se gli studi di uno storico di grande levatura come Girolamo Sotgiu, sulla nascita del movimento operaio sardo, siano praticamente dimenticati e anche i suoi allievi e discepoli si guardano bene dal continuarne l’opera. Eppure il comparire del movimento operaio nella nostra regione, a partire dalla costruzione delle strade ferrate nell’Ottocento, ha rappresentato un indubbio progresso in termini di soggettività sociale e politica, ha favorito l’uscita da una storica condizione di subalternità per fasce significative di masse popolari sarde, superando la illusoria rappresentazione del fantomatico “popolo sardo unito” (senza distinzione tra sfruttatori e sfruttati, dirigenti e diretti) oggi invece tornata prepotentemente di moda. Forse proprio in ciò bisogna rintracciare la convinzione secondo cui i mali del cosiddetto popolo sardo (povertà, arretratezza e sfruttamento) sarebbero una conseguenza della sua misconosciuta dimensione nazionale, anziché il frutto delle contraddizioni nei rapporti sociali di produzione in cui esso si situa. Anche questa confusione, a mio parere, è un segnale della vittoria egemonica di una parte di quel popolo e della sconfitta dell’altra.

Gianni Fresu

 

Il nostro 11 settembre. Tra strategia della tensione e album di famiglia ritoccati.

Il nostro 11 settembre.  

Tra strategia della tensione e album di famiglia ritoccati. 

L’11 di settembre è una data marchiata col sangue sul calendario, oggi tutti la associamo all’attacco alle torri gemelle, ma fino al 2001 era l’esempio più lampante di cosa fosse capace una politica folle come quella messa in atto dal Governo degli Stati Uniti d’America nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. L’11 settembre del 1973 non è un unicum di questa storia, prima c’era stato il 31 marzo 1964 in Brasile, dopo il 24 marzo del 1976 in Argentina. Ma la “guerra sucia” non fu confinata agli esotici paesaggi dell’America Latina. Negli stessi anni e con la medesima regia, essa fu combattuta con uguale intensità anche in Italia e solo per un puro caso non celebriamo un nostro 11 settembre, in compenso nessuno di noi può dimenticare la data del 12 dicembre 1969.

La storia italiana del dopoguerra – con le limitazioni alla propria sovranità e l’interdizione ad una normale dialettica politica – è stata spesso incasellata nella definizione di «democrazia bloccata». Tale quadro, in gran parte dei casi, è stato ricondotto esclusivamente ai condizionamenti imposti dal fronteggiarsi sul piano internazionale dei due blocchi contrapposti e alla conseguente articolazione interna di tale scontro, veicolata dai due grandi partiti di massa italiani: la DC e il PCI. Se tutto questo non può che trovare puntuale conferma sul piano storico, esso costituisce solo una parte, seppur quella predominante, delle cause di ingessatura democratica del paese. Sicuramente le pagine più oscure della «guerra a bassa intensità» combattute in Italia nell’epoca della guerra fredda avevano un concorso di cause solo in parte riconducibili a Roma, tuttavia, anche se si accettasse integralmente questa ipotesi, ciò chiamerebbe comunque in causa una debolezza congenita delle classi dirigenti italiane incapaci di resistere a sollecitazioni esterne di tale gravità. L’utilizzo da parte di apparati non secondari dello Stato di strumenti coercitivi legali e illegali e la pianificazione della strategia della tensione, per la difesa dello stato di cose esistenti, sono il segno evidente di un deficit di egemonia.

Il formarsi degli intrecci da cui si dipanano i rapporti tra violenza politica e potere nel secondo dopoguerra d’Italia si ha nello scenario definito nel 1947 dalla Dottrina Truman. Una prima data emblematica in tal senso è il 31 maggio 1947, essa segna l’estromissione di PCI e PSI dal governo ed è successiva di sei mesi alla visita di De Gasperi a Washington. «Si archiviava definitivamente, quel 31 maggio 1947, la realtà politica uscita dalla Resistenza; cominciava una dura stagione della Repubblica». Più precisamente la “guerra politica segreta” – espressione che compare nei memorandum del National security Council (la struttura americana di “contenimento del comunismo”) – inizierebbe nell’autunno 1947.

Una guerra – sociale, economica, culturale, morale – non dichiarata; a “bassa intensità” militare ma ad alta valenza politica che fu combattuta nel nostro paese a partire dalla fine degli anni ’40 e, con graduazioni e modificazioni anche sostanziali, almeno fino agli anni ’70, quando l’evoluzione del quadro internazionale gli fece perdere gran parte del retroterra e degli obblighi internazionali che le motivavano e, con ampie strumentalizzazioni personali e politiche ai fini interni, la giustificavano[1]

“La guerra psicologica” contro il comunismo era ovviamente rivolta su due fronti: quello esterno riguardava essenzialmente l’URSS; quello interno mirava depotenziare la presenza dei comunisti in Occidente con una attenzione particolare rivolta a Italia e Francia. A tal fine Harry Truman da vita nel 1948 all’Nsc e quindi al «Piano Demagnetize». Dall’analisi dei documenti emergerebbe non solo il ruolo protagonistico degli USA, ma anche l’assoluto coinvolgimento dello stesso governo italiano, il quale sarebbe perfino giunto a sollecitare un intervento armato dell’esercito americano, come risulterebbe da una risposta (negativa) della Casa Bianca al governo italiano del 20 aprile 1948. Tra le documentazioni, in gran parte rinvenute da Nico Perrone (De Gasperi e l’America. Un dominio pieno e incontrollato, Sellerio, Palermo, 1995) si fa riferimento anche agli “unvochered founds”, vale a dire i finanziamenti in nero. La nascita della rete Gladio/Stay behind, è il frutto di un’azione combinata di USA, Gran Bretagna e Italia all’interno della quale il ruolo del Governo De Gasperi è tutt’altro che secondario o subordinato, come documentato  dall’incontro avvenuto a Roma il 29 dicembre del 1947, tra De Gasperi e Antony Eden nel quale il primo dichiarava di aver «incaricato uno dei nuovi vicepresidenti del Consiglio e leader del Partito repubblicano [Randolfo Pacciardi] di agire in qualità di presidente di una sorta di comitato per la difesa civile». Nel contesto di «guerra a bassa intensità» che la contrapposizione per blocchi determinava, rientrava anche un disegno di legge presentato nell’ottobre 1950 dal Ministro dell’Interno Scelba inerente «disposizioni per la difesa della popolazione civile in caso di guerra o di calamità». Si trattava dell’attuazione dell’articolo 3 del Patto Atlantico , esso «impegnava i contraenti ad adottare, con uniformità criteri organizzativi, predisposizioni e misure atte a migliorare la resistenza interna». La legge Scelba attribuiva al Ministero dell’Interno un ruolo di eccezionale preminenza nello stesso Consiglio dei Ministri e più in generale nel funzionamento degli apparati statali, dando vita ad una zona grigia  di sovranità parallela senza garanzie di verifica democratica. Attraverso il Disegno di Legge il Parlamento avrebbe dovuto concedere una ampia delega di poteri per una materia tanto delicata, come le garanzie della libertà dei cittadini e dei diritti civili più in generale, assegnando un ruolo debordante al Ministro dell’Interno sia per la sua centralità nel Governo sia la prerogativa riconosciutagli di scegliere personalmente, organizzare e dirigere, non solo la Polizia e Carabinieri ma anche una non ben identificata «milizia per la difesa civile».  In questo modo il Ministro sarebbe diventato titolare di prerogative e discrezionalità capaci di mettere in ombra lo stesso Presidente del Consiglio e sicuramente il Parlamento.

Nel 1951 a Washington De Gasperi sollecitò un’azione psicologica efficace per far comprendere che l’alleanza atlantica non era solo di tipo militare. Tra le azioni da condurre sul piano interno rientravano i licenziamenti dei lavoratori comunisti nel porto di Livorno, alla Fiat, negli arsenali di Taranto e La Spezia. Il segretario di Stato americano Dean Acheson a sua volta invitò il Ministro della difesa Pacciardi, sempre attivissimo su questo versante, a servirsi dell’aiuto dei due nuovi sindacati, CISL e UIL, nati nel 1950, per individuare e colpire i lavoratori comunisti che lavoravano per le imprese con commesse americane. Nel dicembre 1951-52 lo Psycological Strategy Board predispose il Piano Demagnetize, poi approvato dal segretario alla difesa nell’aprile. Esso prevedeva la creazione di una struttura di consultazione presso gli ambasciatori USA a Roma e Parigi, ed una serie di iniziative alcune delle quali erano qualificate come “operazioni paramilitari”.

La strategia della tensione ha rappresentato qualcosa di più del semplice succedersi delle stragi e dei connessi tentativi di colpo di Stato. Essa è stata, insieme, la più evidente manifestazione dei condizionamenti imposti alla sovranità del nostro Stato e il reagente che ha fuso in un’unica micidiale miscela le principali espressioni di devianza del potere (servizi deviati, poteri occulti, finanza corsara). Come scrive il giudice Guido Salvino: “tutti questi eventi non avrebbero potuto ripetersi se non fossero stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con tutta probabilità, il mantenimento del nostro paese nel campo dell’Alleanza Atlantica” [2].

Per iniziare a distinguere e riconoscere gli elementi di questa «micidiale miscela» la perizia della Commissione parlamentare stragi costituisce una pietra angolare. Soffermarsi in dettaglio sui risultati di tale perizia è fondamentale per poter poi affrontare il tema in termini più ampi, partendo però da un quadro storico e documentale solido ed attendibile. La documentazione attestante le modalità di contrasto del comunismo italiano è stata in gran parte pubblicata nella raccolta Foreign Relation of the United States, o sono comunque rintracciabili nei fondi del National Security Council. Il primo documento preso in esame è il rapporto del Nsc n.1/2  del 10 febbraio 1948. Tale direttiva prevedeva, nell’ipotesi in cui la penisola italiana fosse caduta in mano ai comunisti, un’azione articolata in sette punti e predisponeva un piano per il concentramento di forze in Sardegna o in Sicilia (o in entrambe le isole), con il consenso del governo italiano e a seguito di consultazioni con l’Inghilterra. La Sardegna sarebbe dovuta essere la “Taiwan del Mediterraneo”. Anche una vittoria legale, e non solo l’insurrezione da parte del Blocco popolare, avrebbe messo a rischio gli interessi e la sicurezza degli USA e anche per questa ipotesi dunque era predisposto un piano di interventi basato sulla pianificazione militare congiunta con altre nazioni e la fornitura ai gruppi anticomunisti di piena assistenza finanziaria e militare. Analoghi interventi erano presenti nelle direttive emanate dal Nsc del gennaio 1951, rispetto alle quali però è rimasto segreto il punto delle misure da adottare in caso di conquista legale del governo da parte del Pci, per alcuni omissis. Seguì poi il documento dell’Nsc 5411/2 in gran parte censurato.  Lo studio di tali documenti andava però integrata con altre disposizioni del Nsc definite «covert operations» del 18 giugno 1948. Si trattava di una serie di misure legali ed illegali rispetto alle quali non si sarebbe potuto e dovuto risalire alle responsabilità ultime del governo americano. Più precisamente la direttiva 10/2 parla di:

azioni preventive dirette, compresi sabotaggio, antisabotaggio, misure di demolizione ed evacuazione; sovversione contro Stati ostili, compresa assistenza a gruppi clandestini, gruppi di guerriglia e di liberazione di rifugiati, e appoggio ad elementi anticomunisti indigeni nei paesi minacciati del mondo libero[3].

Tali operazioni non includevano conflitti armati con forze militari riconosciute o riconoscibili, ma non escludevano certo l’impiego di metodi militari di contrasto. Il Nsc delegava per tali operazioni un settore della CIA denominato Office of Special Projects. La direttiva successiva del marzo 1954 prevedeva palesemente interventi di tale natura. In essa compare, sembra per la prima volta, l’espresione «Stay Behind» per indicare la struttura di contrasto anticomunista:

sviluppare la resistenza clandestina e facilitare operazioni coperte di guerriglia e di assicurare la reperibilità di quelle forze in caso di guerre, comprendendo, ovunque possibile, previsioni di una base in cui i militari possano espandere queste forze in tempo di guerra […] come a previsione di reti Stay Behind  e strutture per la fuga e l’esfiltrazione[4]

Nella stessa direzione operava il piano predisposto dalla commissione «C» del Psycological Strategy Board  per il governo italiano contro i cittadini di “orientamento sovversivo”. Esso prevedeva la rimozione dei comunisti dalle cariche amministrative, da scuole e università, degli enti assistenziali; la discriminazione delle ditte che impiegavano mano d’opera comunista; agire legislativamente e amministrativamente per prosciugare le fonti di reddito del PCI (interventi ad esempio finalizzati al fallimento delle cooperative e delle società import-export ad esso legate). Esso tuttavia prevedeva anche una serie di interventi del governo americano finalizzati a screditare il PCI e le organizzazioni ad essa legate; la distruzione delle figure di spicco e della rispettabilità del PCI; la compromissione dei comunisti che ricoprivano cariche pubbliche e la costruzione in laboratorio di scandali riguardanti i leader del PCI. Non è superfluo sottolineare, soprattutto se si tiene conto del dibattito storiografico-politico sulla Resistenza negli ultimi sessanta anni, che tale intervento espressamente si poneva l’obiettivo di screditare e sminuire il ruolo svolto dai comunisti nella liberazione dal nazi-fascismo durante la seconda guerra mondiale. Ma il documento che con maggior chiarezza delinea gli aspetti illegali dell’intervento – in caso di vittoria elettorale delle sinistre – è sicuramente il «supplemento B» al Field Manual 30-31, firmato il 18 marzo 1970 dal generale Westmoreland e sequestrato in una borsa della signora Maria Grazia Gelli nell’aeroporto di Fiumicino il 4 luglio 1981[5].

Mentre il Field Manual A si limitava a delineare le operazioni congiunte del governo USA e di quello ospite per garantirne la stabilità contro l’insorgenza, nel supplemento B, invece, si consideravano gli stessi enti del paese ospite come bersagli dei servizi dell’esercito USA. In questo supplemento era precisato che gli USA si sarebbero concessi una ampia gamma di flessibilità in materia di rapporti con il governo ospite, e a tal fine predisponeva operazioni di controinsorgenza «condotte in nome della libertà e della democrazia», nell’ipotesi di elezione di un governo ritenuto ostile. Nella definizione dei regimi da appoggiare si precisava la preferenza, di fronte all’opinione pubblica mondiale, verso il mantenimento di una «facciata democratica», anche non era certo una condizione imprescindibile per avere il sostegno del governo americano. Più in dettaglio, per soddisfare i criteri di sostegno USA, l’articolazione democratica doveva avere un prerequisito irrinunciabile, la posizione anticomunista sul piano interno e internazionale. Per predisporre una relazione coerente con gli intendimenti del governo americano il «supplemento B» indicava come obiettivo il reclutamento di membri di spicco delle agenzie di sicurezza del paese ospite, in qualità di agenti dei servizi USA, sollecitando questa azione verso gli ufficiali dell’esercito. In questa sottolineatura si può chiaramente delineare l’origine del fenomeno a lungo manifestatosi dei cosiddetti «servizi deviati». La tipologia di intervento prevista era strettamente clandestina e segnata da una dichiarata spregiudicatezza operativa: veniva prevista l’opera di infiltrazione tra le fila dell’estrema sinistra da parte di agenti dei servizi per rendere tali organizzazioni protagoniste di azioni violente, atte a superare le timidezze o le passività del governo ospite verso le organizzazioni di ispirazione comunista. Dunque l’infiltrazione e l’utilizzo spregiudicato dei gruppi di estrema sinistra era finalizzato a suscitare un clima politico favorevole alle azioni di contrasto e repressione. Una modalità di intervento riemersa nel documento Notre action politique, sequestrato nel 1974 a Lisbona presso la Aginter Press, organismo che, dietro la copertura di agenzia giornalistica, nascondeva in realtà una struttura di spionaggio e di «cover actions»,  programmando l’instaurazione del caos in tutte le articolazioni dello Stato sotto la copertura di organizzazioni radicali comuniste.

Sempre su questo piano, nel 1975, la Commissione Rockefeller preparò per il presidente Ford un documento, desecretato nel 1977, denominato «Chaos» che aveva il preciso scopo di infiltrare gruppi, partiti e associazioni della sinistra extraparlamentare in Italia, Francia, Spagna e Germania Ovest. Si trattava di un’operazione nata nell’agosto del 1967 il cui termine era previsto nel 1973. In più di un approfondimento è stata rilevata una strana  coincidenza temporale tra queste operazioni e l’inizio della strategia della tensione in Italia, prima con gli attentati alla Fiera e alla Stazione di Milano, quindi con  la strage di piazza Fontana.

L’approfondimento di questo quadro è essenziale per fornire una panoramica articolata del tema violenza e politica nel secondo dopoguerra, sia perché serve a delineare il piano di azione in difesa dello stato di cose esistenti, sia perché esso ha imposto una serie di implicazioni che oggettivamente sono riuscite ad inquinare lo stesso sviluppo delle organizzazioni della sinistra in rapporto a questo tema. Il punto nodale consiste nel comprendere (ma questo spetta a una ricerca più approfondita per la cui realizzazione occorrono anni) quanto l’infiltrazione e la pressione interessata verso le organizzazioni di sinistra, in modo da favorire l’acuirsi dello scontro in termini militari, abbia influito sul piano teorico e pratico nella vita di queste organizzazioni.

La documentazione sequestrata nell’archivio della VII divisione del Sismi, darebbe una prima risposta alla domanda fondamentale che emerge dalla vicenda di Gladio: la struttura non era esclusivamente finalizzata a proteggere il territorio italiano  da una possibile invasione di eserciti nemici, ma aveva una proiezione interna tutta orientata al contrasto di una possibile vittoria elettorale, e al conseguente ingresso nell’area di governo, della sinistra. A questo compito se ne affiancava un altro legato alla necessità di bloccare agitazioni e movimenti potenzialmente in grado di influire sulla collocazione internazionale del paese e sui suoi assetti socio-politici. Questo smentirebbe le affermazioni di dirigenti della struttura e dei servizi segreti, così come dei politici  avvicendatisi alla direzione del Ministero dell’Interno, secondo i quali Gladio aveva solo una funzione di difesa da possibili aggressioni esterne. Al di là di quella documentazione, questa versione sarebbe smentita dalla stessa storia dei gruppi che hanno preceduto Gladio, a partire dalla Osoppo, e della stessa rete Stay Behind. Così i dirigenti di Gladio periodicamente prendevano parte a stage negli Usa o in Gran Bretagna nei quali l’oggetto di studio era l’ideologia comunista e i diversi modi per contrastarne l’avanzata, sovversiva o democratica che fosse. La perizia curata da Giuseppe De Lutiis[6] riporta diversi appuntamenti di questo tipo. Anzitutto il corso tenutosi negli Usa tra l’ottobre e il novembre del 1957, al quale presero parte quattro ufficiali della rete, il cui tema di approfondimento era stato così sintetizzato dagli agenti italiani: «teoria e prassi del comunismo con particolare riguardo alle sue modalità di infiltrazione nei vari settori del paese, per la conquista democratica del potere. Le varie fasi per il consolidamento del potere in un territorio conquistato democraticamente e quelle per il consolidamento del potere in un territorio occupato militarmente». Ma oltre a questi corsi ci sono i verbali delle riunioni tra i capi di Gladio e i relativi documenti che attestano come l’obiettivo della difesa da aggressioni esterne diviene presto secondaria rispetto alla guerra psicologica interna. A questa finalità rispondevano i corsi di «counter-insurgency», dedicati agli aderenti della struttura Stay Behind, e alle relative esercitazioni come l’operazione «Delfino». Documenti del 1963, recuperati dalla Commissione parlamentare stragi, attestano chiaramente l’esistenza di corsi organizzati segretamente da apparati dello Stato per addestrare militari e civili a svolgere azioni di natura non precisata contro partiti regolarmente costituiti e presenti nelle istituzioni democratiche.

Essi erano finalizzati alla operatività degli agenti in funzione propagandistica, di contro-propaganda e di disturbo, ma anche alla predisposizione di altri corsi per militari e civili in modo da sviluppare presso gli ufficiali delle Forze Armate un’azione coordinata con le finalità dell’operazione Stay Behind. È da sottolineare la coincidenza temporale tra i corsi e l’intensa attività di arruolamento di personale civile per scopi non ben definiti da parte del colonnello Renzo Rocca, a capo dell’Ufficio Ricerche economiche ed industriali (Rei) del Sifar. Un’organizzazione nata per salvaguardare la  segretezza dei brevetti industriali di settori strategici, specie quelli di armi, ma nella realtà prodigatasi a rastrellare finanziamenti “antisovversivi” tra i grandi industriali, da ripartire poi a partiti, correnti, giornali, gruppi e singoli politici. Il rastrellamento di risorse era compensato poi con commesse militari, appalti e licenze per l’esportazione di armi[7]. Nella relazione della Commissione parlamentare sui fatti del giugno luglio 1964, era stato chiarito che nell’estate del 1963 il colonnello Rocca si era recato in Liguria e Piemonte a prendere contatti con ex militari, ex paracadutisti, ex militi della X Mas al fine di arruolarli nella struttura informativa, per conto del Sifar. Tutta questa intensa attività di arruolamento e addestramento di nuclei speciali era strettamente legata ai movimenti del Generale De Lorenzo. Si trattava di nuclei d’azione allestiti e subito operativi pronti ad intervenire in vista del colpo di Stato.

Sicuramente dietro al Piano Solo non c’era solo Gladio, ma esisteva una organicità tra la struttura e i piani di golpe. Non a caso De Lorenzo, a capo del Sifar tra il 1958 e il ’62, è stato di fatto il fondatore di Gladio. Di certo non è ipotizzabile che l’uso spregiudicato dell’Arma dei carabinieri e del Sifar per funzioni politiche di contrasto anticomunista potesse essere sconosciuto all’organismo ufficialmente preposto a quell’attività. Com’è noto, è confermato dallo stesso generale De Lorenzo,  qualora il colpo di Stato fosse andato a buon fine, i cittadini compresi nella famigerata lista nera (politici, sindacalisti, uomini della cultura di sinistra) sarebbero stati deportati proprio nella base operativa di Gladio a Capo Marrargiu. In questa realtà si inseriva poi Convegno sulla «guerra rivoluzionaria», svoltosi all’Hotel Parco dei Principi di Roma il 3-4-5 maggio del 1965, che è estremamente importante perché in essa si avvia l’incrocio perverso tra Forze Armate, servizi e le nascenti organizzazioni dell’eversione neofascista

Prima di quest’appuntamento, tra il 15 e il 24 aprile del 1963, si svolse nei pressi di Trieste la famosa esercitazione per azioni di insorgenza e contro insorgenza denominata «Delfino». L’operazione doveva intervenire a «contenere i germi» di una possibile insorgenza da parte di gruppi estremistici nel nord Italia. In realtà, anche in questo caso, dai resoconti e dai documenti, emerge che l’esercitazione era mossa da valutazioni e previsioni di interevento su situazioni politiche che esulavano totalmente dalle prerogative di una istituzione militare. Così si prospettavano i rischi legati all’affermazione di una amministrazione di centro sinistra a Trieste, venivano formulate proiezioni sull’andamento elettorale del PCI e si prospettavano ambiti di intervento possibili (propaganda e comunicazione) per contrastarne l’avanzata in vista delle elezioni amministrative. Questo insieme di elementi fornisce una conferma documentale e probatoria su una valutazione che in ambito politico era già una certezza: la limitazione costante della sovranità popolare e democratica nel nostro paese. Una limitazione espressasi attraverso l’esercizio sistematico della violenza che ha drogato il dibattito politico e condizionato la normale dialettica economico-sociale dell’Italia nel dopo guerra.

Il condizionamento violento della vita democratica e del corretto funzionamento istituzionale, ha portato apparati dello Stato a servirsi del sabotaggio contro le istruttorie della magistratura  per l’individuazione di mandanti ed esecutori delle stragi. Apparati dello Stato hanno preso parte a tentativi golpistici, hanno condotto operazioni di provocazione politica, hanno svolto attività di fiancheggiamento sostegno ed in alcuni casi di direzione dell’attività terroristica, hanno favorito la fuga all’estero dei presunti responsabili. Non si può non tenere conto di tutto questo nel considerare le intricate vicende del terrorismo in Italia, perché verrebbe meno una premessa fondamentale senza la quale la semplice analisi storica e concettuale sarebbe parziale, per non dire inutile. Oltre a presentare la rete Stay Behind come funzionale alla mera difesa da minacce esterne, gli alti ufficiali e i rappresentanti istituzionali coinvolti hanno cercato di limitare le proprie responsabilità attraverso il teorema delle «mele marce». Secondo questa tesi le violazioni della legalità e le più inquietanti zone d’ombra tra attività dello Stato ed eversione terroristica, sarebbero il risultato della spregiudicatezza operativa di cui singoli elementi dei servizi, rispetto alla quale né i vertici né la struttura più complessiva delle Forze Armate avrebbero colpe.

Anche su questo le indagini della Commissione parlamentare stragi hanno dimostrato altro, ponendo in luce non solo la responsabilità di singoli subalterni troppo zelanti, ma il coinvolgimento dell’intera catena di comando, così come è emersa la continuità storica delle “deviazioni operative”. Detta in altri termini, il turn over delle diverse generazioni di ufficiali dei servizi ha portato spesso le nuove leve a proseguire le attività illegali dei loro predecessori, pur nella consapevolezza che quel modo di operare era totalmente al di fuori dal diritto. Ciò è accaduto in diversi frangenti: nel 1968, quando i servizi hanno preparato il terreno alla stagione delle stragi, proprio mentre veniva alla luce lo scandalo Sifar di De Lorenzo; nel 1973, quando furono proprio i servizi ad attivare la rete delle organizzazioni eversive denominata Rosa dei venti, mentre emergevano le responsabilità oggettive di Piazza Fontana; nel 1978, quando i nuovi dirigenti dei servizi riformati ripresero da dove avevano lasciato i vecchi, proseguendo i tradizionali canali di illegalità, basti pensare alla strage di Bologna e a quella di Ustica.

Tra le tante continuità nell’azione dei servizi un posto d’onore spetta ai rapporti con la massoneria. Già Giuseppe Pièche – durante il fascismo  a capo della III sezione del Sim e uomo dell’Ovra – che nel dopoguerra è indicato come l’eminenza grigia del ministero dell’Interno, è stato a lungo Sovrano Gran Commendatore del rito scozzese di Piazza del Gesù. La perizia riporta lo stralcio di una lettera inviata da un importante massone del Grande Oriente che costituisce uno dei primi documenti capaci di portare luce sul fenomeno:

In occasione dell’Agape bianca tenutasi all’Hilton nella ricorrenza del 20 settembre, il fratello colonnello Gelli, della loggia “P”, avrebbe comunicato al fratello Salvini che il Gran Maestro avrebbe iniziato sulla spada quattrocento alti ufficiali dell’esercito al fine di predisporre un “governo dei colonnelli” sempre preferibile a un governo dei comunisti. Sarebbero anche stati iniziati o in via di esserlo anche alcuni grossi personaggi della DC[8] .

I riscontri oggettivi sul significato politico di questa iniziazione sono tanti, tra i vari, De Lutiis nella sua perizia cita la deposizione nel 1977,  al processo per la strage di piazza Fontana tenutosi a Catanzaro, del capo della polizia Vicari che parlò della minaccia di un golpe nell’estate del 1969 descrivendolo come uno dei più seri tentativi messi in opera al tempo. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta la loggia P2 diviene una realtà di confluenza e incontro tra figure eminenti della vita economica, politica, giudiziaria, militare ed eversiva del paese. In questo periodo si ha uno spostamento dei personaggi di spicco delle forze armate dalle logge tradizionali alla P2. Alla P2 aderiscono tutti i generali coinvolti nel Piano Solo del giugno luglio 1964 (Giovanni Allavena, Luigi Bittoni, Romolo Dalla Chiesa, Franco Picchiotti) mentre gli stessi generali Aloja e De Lorenzo aderiscono alla loggia coperta all’obbedienza di Piazza del Gesù, la quale confluisce a sua volta nella P2 nel 1973. Nella P2 confluiscono anche le due anime dei servizi segreti che vengono definite da De Lutiis una apertamente golpistica (quella guidata da Vito Miceli) e una apparentemente più fedele alle istituzioni (quella del capo dell’ufficio D, generale Maletti). Così come per il «Piano Solo», anche i promotori del tentato golpe «Borghese» erano tutti aderenti alla loggia P2 (il generale Miceli, Filippo De Iorio, gli ufficiali dell’aeronautica Giuseppe Lo Vecchio e Giuseppe Casero). Sarebbero stati massoni anche lo stesso Borghese, il suo braccio destro Remo Orlandini e l’ex ufficiale dei parà Sandro Saccucci, che ebbe un ruolo di primo piano nel fallito golpe. Come è noto parteciparono al tentato golpe lo stesso Gelli e l’ammiraglio Torrisi, il cui nome sarebbe stato cassato dall’elenco degli aderenti alla P2 al momento della pubblicizzazione, per volontà del Sid, che lo consegnò alla magistratura.

Un passaggio nodale del rapporto tra massoneria e ambienti militari sarebbe rappresentato dalla riunione tenuta a villa Wanda convocata da Licio Gelli. A quella riunione presero parte il generale Palombo, comandante della divisione carabinieri Pastrengo di Milano, il colonnello Calabrese, il generale Picchiotti, comandante della divisione carabinieri Podgora di Roma, il generale Bittoni, comandante della brigata carabinieri di Firenze, il colonnello Musumeci, diventato nel 1978 capo dell’Ufficio controllo e sicurezza del Sismi, e il procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma Carmelo Spagnuolo. Pare che in quella riunione le aspirazioni golpiste dei congiurati passasse per un governo presieduto proprio dal magistrato Spagnuolo. A metà degli anni settanta si sarebbe però determinato un mutamento di strategia nella P2, in linea con il cambiamento degli Usa che ebbe come conseguenza l’abbandono dei regimi fascisti di Portogallo e Grecia, caduti poi nel giro di pochi mesi. In questa fase (1976) Licio Gelli avanza il “Piano di Rinascita Democratica”, non propone più il colpo di Stato militare “modello sudamericano” a conclusione di una fase convulsa di destabilizzazione terroristica, ma una riforma istituzionale più morbida e meno traumatica nelle modalità di attuazione. Insomma il passaggio del testimone dai militari ai più sofisticati strumenti di conquista egemonica della società: giornali, partiti, movimenti d’opinione, intellettuali mobilitati. Questo non significa certo che Gelli e la P2 abbandonino le relazioni oscure con l’eversione neofascista e con gli ambienti golpisti di esercito e servizi segreti, anzi. La componente piduista nei servizi dopo la riforma del 1977 è ancora più spregiudicata e aggressiva nelle sue attività illegali. L’operato del Sismi tra il 1978 e l’81 con a capo Musumeci, Santovito e con l’organica attività di Pazienza (non inserito in alcun ruolo istituzionale eppure uomo chiave dei servizi), riesce a moltiplicare i versanti di deviazione e iniziative illegali, non limitandosi più a proteggere latitanti di destra e sospetti autori di stragi. Le trattative con camorra e BR per l’operazione di Cirillo, i depistaggi sulle indagini alla strage di Bologna del 2 giugno 1980, le macchinazioni a danno del Presidente della Repubblica erano tutti il segno di un’articolazione sempre più intensa da parte del Supersismi. Tuttavia, il versante più inquietante dell’attività dei servizi resta senz’altro quello relativo ai rapporti strettissimi con la galassia dei gruppi eversivi neofascisti: da Ordine nuovo al Movimento di azione rivoluzionaria; dalle Squadre di azione Mussolini a Ordine nero; dal Fronte nazionale alla Rosa dei venti, dai NAR a Terza posizione.

Come dimostrano le vicende del famigerato “Centro Scorpione”[9] di Trapani, messo in piedi dagli stessi protagonisti di Gladio proprio in concomitanza con il Maxiprocesso, in questa storia un altro versante fondamentale di approfondimento riguarda il ruolo delle organizzazioni malavitose, dunque la trattativa Stato-mafia non può certo essere circoscritta alla stagione stragista dei primi anni Novanta. Come è oramai appurata la sinergia tra apparati dello Stato ed eversione neofascista per difendere gli equilibri politico sociali, consolidatisi a partire dalle elezioni del 1948, così il rapporto con organizzazioni malavitose come la mafia è un dato organico della storia di questo Paese, specie nelle sue fasi di crisi. Come altre volte in passato, la magistratura ha iniziato a fare chiarezza su certe inconfessabili modalità, del tutto antidemocratiche, di autodifesa del potere politico in questo Paese. Chiarite le verita processuali, speriamo, su questo dovranno interrogarsi gli storici in  futuro, indagando senza blocchi e autocensure le storie individuali e collettive delle classi dirigenti italiane con tutte le loro contraddizioni. Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia sarebbe potuto essere un’occasione propizia per iniziare a farlo, purtroppo, in gran parte, si è preferita strada dell’agiografia, la rappresentazione retorica e oleografica di un grande album di famiglia nel quale tutti gli italiani avrebbero dovuto riconoscersi.

 

 


[1] Paolo Cucchiarelli -Aldo Giannulli, Lo Stato parallelo. L’Italia oscura nei documenti e nelle relazioni della Commissione stragi.. Gamberetti Editrice, Roma 1997, pp. 32, 33.

[2] Ivi, pag. 13

[3] Direttiva dell’Executive Secretary dell’Office of special Projects al National Security Council, del 18 giugno 1948. Volume IV, pag. 545

[4] Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, XI Legislatura, Vol.VII, Tomo I, pp. 287-298.

[5] Ivi, pag. 288-295

[6]Lo straordinario approfondimento di Giuseppe De Lutiis, che raccoglie il lavoro dello storico per la Commissione parlamentare stragi, risultante dallo studio delle 105.000 pagine sequestrate dalla magistratura negli uffici del Sismi, ha trovato pubblicazione nel testo: G. De Lutiis, Il lato oscuro del potere, associazioni politiche e strutture paramilitari segrete al 1946 ad oggi, Editori Riuniti, Roma, 1996.

[7] Ruggero Zangrandi, Inchiesta sul Sifar, Editori Riuniti, Roma, 1970.

[8] Lettera del 23 settembre 1969 inviata all’agronomo Prisco Brilli, consigliere  dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia, all’ingegnere Francesco Siniscalchi. Atti della commissione parlamentare sulla loggia P2.

[9] Tra le tante anomale articolazioni di Gladio, che meriterebbero attenzione e ulteriori approfondimenti – specie ora che riemerge con consistenza l’ombra inquietante dei servizi segreti sulla strage del giudice Borsellino e della sua scorta – c’è sicuramente il Centro Scorpione istituito dalla struttura di Gladio a Trapani nel 1987, proprio nel periodo in cui si celebrava il Maxiprocesso alla mafia (sviluppatosi tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987). Le anomalie mai chiarite di questo centro sono molteplici, tuttavia, nel periodo e nel territorio in cui operò il Centro Scorpione vi furono alcuni omicidi eccellenti ed emblematici insieme: Giuseppe Insalacco (per tre mesi sindaco di Palermo nel 1984), protagonista di clamorose denunce delle collusioni tra mafia e politica, ascoltato anche dalla Commissione antimafia. Insalacco fu ucciso insieme al suo autista il 12 gennaio 1988. Dopo la morte fu trovato un suo memoriale in cui accusava diversi esponenti della DC palermitana, per la commistione con la mafia nel sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino; il giudice Antonio Saetta, impegnato in numerosi processi alla mafia. Saetta in particolare si trovò a presiedere il processo a Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonna, per l’uccisione al capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Il processo, conclusosi in primo grado con una sorprendente e molto discussa assoluzione, decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati. Pochi mesi dopo questa sentenza, il 25 settembre 1988, il Giudice Antonio Saetta e il figlio Stefano vennero assassinati; Giovanni Bontate – fratello del boss Stefano, secondo i collaboratori di giustizia molto vicino ai vertici nazionali e regionali della DC, assassinato nel 1981 – coinvolto nel maxiprocesso e ucciso insieme alla moglie il 28 settembre 1988; Mauro Rostagno, impegnato nella lotta per il recupero dei tossicodipendenti in Sicilia e in prima linea nel denunciare gli intrecci tra mafia e politica, ucciso il 26 settembre del 1988. Ora, anche senza lasciarsi andare a troppe congetture, è quantomeno singolare che una struttura d’intelligencedotata di mezzi (persino un aereo e una pista d’atterraggio a propria disposizione), operante in quel territorio, non fosse stata in grado di reperire informazioni utili prima e dopo i diversi omicidi. Nella struttura peraltro operava un agente di spicco come Vincenzo Li Causi, coinvolto in diverse vicende poco chiare e dai profili decisamente illegali.

 

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Il dovere della sintesi e l’obiettivo dell’unità.

Lo “Straordinario congresso” del PRC si è concluso con la totale riproposizione una linea a mio avviso già ampiamente sconfitta negli anni precedenti sui tre fronti principali in cui avrebbe dovuto dispiegarsi: l’organizzazione interna; l’opposizione sociale; le istituzioni.

Rifondazione, infatti, è da anni in preda a un’emorragia inarrestabile di militanti e iscritti, è praticamente fuori dalle piazze in cui si esprime il malessere sociale, è stata espulsa dalle istituzioni dopo una lunga sequenza di tracolli elettorali. A suggellare ulteriormente la continuità con le scelte pregresse, si è deciso di confermare nel ruolo di segretario anche la figura che maggiormente l’ha incarnata. Mi è capitato di dirlo più volte, almeno dal 2011, lo ribadisco ancora: quando ci si trova di fronte a una totale sconfitta del proprio campo bisogna essere spietati, per nulla indulgenti e sentimentali, nella indagine tesa a metterne a nudo cause e responsabilità. Dopo una Caporetto, confermare insieme con strategie e tattiche perdenti persino il Comando di Stato Maggiore sconfitto significa non fare i conti con la realtà. Quando poi le battaglie di Caporetto sono tante diventa tutto ancora più inspiegabile.

Nei mesi passati, dopo il mesto ma prevedibile epilogo di “Rivoluzione Civile”, preceduto a sua volta dalla incomprensibile autodistruzione della Federazione della Sinistra, da più parti si erano levate voci e proposte in favore di una fase nuova, per rilanciare su basi radicalmente diverse la presenza dei comunisti e creare un fronte unitario di lotta sociale della sinistra nel Paese. A tali richieste, però, si è risposto con un’atteggiamento di netta chiusura e autosufficienza.

“Il partito di cui si afferma il bisogno c’è già, è il PRC, dunque basta iscriversi e lavorare al suo interno!” È  stata questa, grosso modo, la risposta all’istanza di un nuovo soggetto unitario che singoli e gruppi si sono visti recapitare dalle tribune congressuali, dove addirittura sono stati proposti e discussi emendamenti tesi a certificare l’indisponibilità verso un processo unitario che ricomponesse la diaspora comunista.  Significativamente, chi se ne è fatto portatore ha trovato pure un ruolo nella nuova segreteria nazionale, più chiari di così?

Il progetto del PRC, dopo la “Bolognina” capace di suscitare speranze e senso di appartenenza tra vecchie e nuove generazioni, negli ha progressivamente perso pezzi, riducendo con il numero di tesserati una originaria ricchezza di linguaggi e culture politiche . So che molti non apprezzeranno, ma non è rimasto più niente dello spirito originario che portò alla nascita della Rifondazione comunista. L’idea lungimirante della sintesi innovativa tra le migliori esperienze del movimento comunista italiano si è ridotta alla sola autorappresentazione di una delle sue componenti originarie. Anche in questo sta, sempre secondo me s’intende, la ragione della sua involuzione minoritaria.

Il mutamento molecolare dell’idea primitiva della Rifondazione comunista ha avuto diversi momenti cruciali, ma probabilmente trova un punto di non ritorno nella svolta impressa alla sua direzione da Fausto Bertinotti cui si fornì una delega plebiscitaria, assoluta e indiscutibile, sempre più ampia, sfociata poi in una concezione carismatica e mediatica delle funzioni di direzione. Fu solo l’atto finale di uno smarrimento ben più articolato, tuttavia, è bene ricordare il Congresso di Venezia quando, dalla tribuna del Lido, Bertinotti affermò di essere un “segretario di maggioranza” e non di sintesi: “Il partito si governa anche con un voto in più e chi non è d’accordo può benissimo andare altrove”, concluse, indicando la porta a chi non accettava la brutale chiusura di una normale dialettica tra maggioranza e minoranze. La storia successiva si è incaricata di dimostrare quanto fosse errata quella scelta, anche se non tutti sembrano averne tratto lezione. Per invertire la tendenza inarrestabile alla frammentazione il tema della sintesi è al contrario centrale, è un dovere, se si intende perseguire realmente l’unità. Da ciò un’indicazione operativa per i mesi a venire: non bisogna arrestare per un solo istante l’offensiva unitaria, anche verso quei compagni che con questo congresso hanno certificato il loro disinteresse a praticarla.  Con le scissioni non si fa l’unità, è vero, ma la logica maggioritaria e il rifiuto di una sintesi più avanzata sono i prodromi di ogni scissione, dunque ci si deve parimenti interrogare sia sulle responsabilità di chi le scissioni le fa, sia su quelle di chi le alimenta chiudendo autisticamente ogni margine di discussione.

A quell’idea originaria della Rifondazione comunista, purtroppo mai praticata fino in fondo, si dovrebbe invece tornare proprio oggi per aprire una fase Costituente nuova, che a partire dall’azzeramento di organismi e organizzazioni esistenti provi a superare lo stato di inefficacia cronica dei comunisti e più complessivamente della sinistra in Italia.

Gianni Fresu

Intervento all’assemblea “Che fare? Comunisti e sinistra”. Magazzini Popolari Casal Bertone, Roma 13 aprile 2013

Gianni Fresu

Intervento all’assemblea “Che fare? Comunisti e sinistra”.

Magazzini Popolari Casal Bertone, Roma 13 aprile 2013


Care compagne e cari compagni, di fronte al fallimento non solo delle prospettive, ma persino dei presupposti politici della cosiddetta sinistra d’alternativa in Italia fin qui praticati, si è aperta una discussione estremamente utile e stimolante, perché finalmente ha liberato molti di noi dai vincoli castranti delle rispettive aree e tendenze di appartenenza, rimaste parimenti travolte dal fallimento dei relativi partiti. C’è a sinistra uno spazio enorme da colmare, il modo migliore per comprendere la situazione reale e predisporci a elaborare una proposta all’altezza della sfida è non cercare rifugi nelle liturgie rassicuranti, ma perdenti, delle nostre rispettive comunità politiche di provenienza. Da questo punto di vista, iniziative come quella di oggi hanno un indubbio merito: riavviare una discussione non frazionata dagli steccati difensivi dei propri orticelli.

Quale esito possa avere una simile discussione è difficile dirlo, l’importante è dargli l’avvio (per usare un’espressione molto cara a Togliatti nei tremendi anni trenta) «senza aver paura di fare politica». Una cosa è certa, almeno così la penso io, bisogna accuratamente rifuggire da una tentazione: preconfezionare un progetto politico bell’è pronto da offrire in dote agli altri, aspettandoci eventuali adesioni entusiastiche o passive. Per essere ancora più chiari, non bisogna farci risucchiare dalle velleità caratteristiche delle fasi di crisi,  che in ultima analisi si tradurrebbero nella creazione dell’ennesimo partitino che si andrebbe a sommare a quelli esistenti. Occorre fare il procedimento inverso, discutere tra noi con l’ambizione di superare le attuali divisioni, mi rendo conto che è un’impresa ciclopica, ma se non ci proviamo ora nella condizione di riflusso e nello stato catatonico in cui ci troviamo, quando lo dovremmo fare?

Questa discussione non parte da zero, ognuno di noi ha fatto le proprie battaglie ed è portatore della sua personale elaborazione dei fatti. Vale anche per me e, dato che in questo momento non siamo impegnati in una gara di creatività intellettuale, mi scuso preliminarmente se in diversi passaggi dovrò fare nuovamente affidamento a ragionamenti e concetti da me già espressi altrove.

 

 

1)     Crisi organica.

 

Dopo decenni di giusta e previdente predicazione contro i paradigmi liberisti sostenuti da governi, accademie, giornali e benpensanti variamente collocati, abbiamo di fronte il collassamento di tutti i principali punti di riferimento dell’ideologia del “libero mercato” e la totale assenza di credibilità popolare da parte dei sacerdoti da sempre impegnati nel culto del “lasseiz-faire”. Ci troviamo in una fase di «crisi organica» del capitalismo mondiale, ossia, non una congiuntura, bensì una crisi strutturale che coinvolge in pieno i rapporti di produzione, quelli sociali, i circuiti finanziari di remunerazione dei capitali, lo stesso rapporto di rappresentanza dei sistemi parlamentari.

 

Gramsci diceva che quando si verifica una condizione di «crisi organica», i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali non riconoscendo più nei propri gruppi dirigenti l’espressione politica dei propri interessi di classe. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Il determinarsi di questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutte quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell’opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l’alta finanza, la chiesa. In una fase di crisi organica sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, esse sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione.

Oggi ci troviamo in una situazione per molti versi simile, sicuramente diversa, non comprimibile nelle braghe dell’analogia storica, tuttavia, proprio dai drammi passati deve scaturire in noi la consapevolezza che nulla va sottovalutato. Le crisi organiche sono dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le”riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo. Siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionale dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni, per ora possiamo limitarci a sottolineare che in Italia tutto questo avviene proprio nella fase di maggior crisi storica del movimento comunista e più in generale di tutte le prospettive alternative al modo di produzione capitalistico.

 

2)     Crisi del nostro campo politico.

 

Di sconfitta in sconfitta, il nostro campo si è progressivamente ridimensionato, fino a divenire inutile, residuale, insignificante. L’ho già detto e non posso che ripeterlo, negli ultimi anni siamo stati impegnati, più che a costruire un nostro progetto politico e dargli credibilità, a ragionare in termini di posizionamento rispetto agli altri: PD sì, PD no; governo sì, governo no.

Sta accadendo anche ora, nonostante il tracollo. Anche in questi giorni sono stato raggiunto per telefono, mail, o altro da compagni e dirigenti preoccupati per il problema delle alleanze, tanto da intendere lo scioglimento preventivo di questo nodo la premessa a qualsiasi discussione. Da una parte mi è stato detto: “ma non puoi metterti a discutere con quei matti che mai farebbero un’alleanza con il centrosinistra”. Dall’altra: “va bene discutere, ma sia chiaro prima di tutto, mai ci alleeremo con chicchessia!”

Mi permetto di dissentire da questo modo di avviare la discussione. Fondare o affondare (come è capitato alla FdS) il proprio progetto sulla politica delle alleanze (alleati sempre e comunque oppure mai) è indice di subalternità politica: in entrambi i casi il soggetto non sono io, bensì l’altro, in ragione del quale, in un senso o nell’altro, configuro tutte le mie scelte di tattica e strategia. Nonostante la nostra irrilevanza, conclamata,vedo ancora troppi compagni ripiegati su una valutazione meramente difensiva, più impegnata a fare le pulci alle organizzazioni collocate alla nostra destra che a realizzare un proprio bilancio. Smettiamola di parlare del PD, pensiamo a cosa vogliamo fare noi, anteporre la politica delle alleanze (PD sì, PD no) è un modo per mascherare la mancanza di una nostra soggettività politica. Per il PCI del dopoguerra la scelta di collaborare o rompere con le altre forze non era la premessa, ma una semplice eventualità tattica da prendere inconsiderazione a seconda delle situazioni e soprattutto dell’oggetto della collaborazione, o della rottura, in sé.

Chi trasforma questo rovello storico, in positivo o in negativo, ne rimane irrimediabilmente prigioniero. A mio avviso, esso non è la causa della nostra debolezza, bensì, l’effetto. Le cause del problema vanno ricercate altrove: la nostra subalternità culturale non solo verso l’attuale quadro politico, ma anche, e soprattutto, nei confronti di una più complessiva visione del mondo, di una Weltanschauung, che ci limitiamo a subire e ovviamente non siamo in grado di aggredire. Senza una nostra visione del mondo, che contempli un ordine diverso dall’attuale, la funzione dei comunisti perde di significato e senso storico, siamo destinati a essere fagocitati dai limiti storici delle politiche socialdemocratiche, anche se queste sono profondamente in crisi.

Per essere ancora più chiari, a mio avviso, il nostro problema non è l’essere o non essere stati l’ala sinistra di un progetto conservatore, la teoria del “socialfascismo” non mi ha mai suscitato alcuna simpatia.Il difetto semmai è all’origine: è mancata la parte rifondativa della nostra sfida. Abbiamo saputo riprodurre tutti i peggiori difetti dell’ultimo PCI, senza però averne il peso, non siamo stati capaci di costruire una nostra visione coerente e organica del mondo. Abbiamo lasciato il marxismo illanguidire in soffitta per andare ecletticamente al traino delle ultime novità “radicali”(Revelli, Toni Negri, pensiero No-global, disobbedienza,nonviolenza, ecc. ecc) in un continuo pellegrinaggio ideologico fatto di svolte e contro-svolte talmente volubili, e sovente contraddittorie, da averci lasciato, in ultima analisi, disarmati, proprio in una fase che doveva essere nostra: quella della crisi organica del capitalismo, segnata dal discredito e dalla disapprovazione popolare per le politiche liberiste.

Diciamolo serenamente, abbiamo fallito nella premessa del nostro progetto: non abbiamo rifondato né una teoria, né una prassi comunista.Ripartire, con onestà, significa fare i conti con questo problema, come affermava Marx, gli uomini prendono coscienza del proprio essere sociale,dunque fanno scelte di campo, sul terreno delle ideologie. Attualmente quale è la nostra?

Non caschiamo nella “falsa coscienza” della filosofia imperante, secondo cui le ideologie sono superate, è una menzogna, il liberalismo ha ancora oggi una sua ideologia, e le politiche che stiamo subendo in questi anni ne sono una tragica conferma, la stessa anti-ideologia dei movimenti antipartitici alla Grillo è, in realtà, un’ideologia in sé, costruita per negazione. Noi, non solo non abbiamo curato la costruzione di una nostra nuova visione del mondo all’altezza della sfida odierna, ci siamo sbarazzati di quella che avevamo ereditato. Da qui bisogna ripartire, per questo ritengo necessario mettere al bando i comitati e le bizzarrie elettorali tanto in voga nell’ultimo decennio per avviare un lavoro di lungo periodo.

Mi è capitato di chiarire altrove la mia opinione sulle ragioni del nostro fallimento: anzitutto la tendenza a impegnarci in campagne estemporanee, escogitate nei frangenti elettorali, e l’inconsapevole tendenza ad anteporre queste operazioni a una costruzione paziente del nostro progetto politico, capace di seminare, sedimentare e al limite, ottenere risultati.

Quanto accaduto alla Federazione della Sinistra, unico tentativo nato con la felice intuizione di invertire il processo disgregativo e decompositivo tra di noi è di per sé negativo. Chiarito che i gruppi dirigenti dei partiti costitutivi non ci hanno mai creduto, e si sono guardati bene dal mettere in discussione i propri santuari di autonoma sovranità, per quanto miseri, cosa necessaria se si intendeva trasformare un cartello elettorale in progetto politico. La FdS, dopo quattro anni di propaganda unitaria, in gran parte contraddetta dai comportamenti concreti, è morta per comune accordo a pochi mesi dalle elezioni, e nemmeno sul tema delle alleanze per il governo, ma addirittura sulle primarie. Un fallimento totale, per poi ritrovare dopo pochi mesi quelle stesse forze unite nella stessa lista, però senza nemmeno il simbolo con cui si erano presentate dal 2009 in poi agli italiani, un capolavoro politico. È  sconcertante, nessuno, tra i gruppi dirigenti, ha avuto l’umiltà di aprire una riflessione sulle ragioni di questo fallimento mettendo in discussione la propria direzione politica e con essa il proprio ruolo. Non solo, nemmeno la scoppola subita alle recenti elezioni politiche è servita per un’assunzione di responsabilità in tal senso. Se il PRC ha partorito un assurdo CPN dal quale è scaturito lo “straordinario Congresso”, non un Congresso straordinario (in fin dei conti non è accaduto nulla per pensare a una condizione di straordinarietà) il cui motto principale  sarebbe “rilanciare la Rifondazione”, nella stessa giornata, a pochi isolati di distanza i comunisti italiani lanciavano la parola d’ordine“ricostruire il PdCI”. Sarò forse io un po’ lento a capire la politica, ma ancora non mi è chiaro come sia possibile unire tirando nuovamente su tramezzi e muri divisori tra di noi, anziché deciderci finalmente a buttare giù i ruderi di quelli costruiti un tempo.

 

3)      Che fare?


Nella loro storia i comunisti hanno saputo incidere sulla realtà, e uscire dal ghetto in cui le forze sociali conservatrici li avrebbero voluti relegare, quando hanno avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere i propri limiti, attraverso una severa, non rituale, autocritica.E’ stato così con il Congresso di Lione, che mise al bando settarismi e astrattismi ideologici con l’ambizione di costruire un partito in grado di analizzare la propria realtà nazionale e aderirvi plasticamente. E accaduto ancora nel fatidico biennio 1934-35, quando il movimento comunista ebbe il coraggio di sottoporre a severa critica la fallimentare tattica del periodo 1928-33, che recava con sé gravi responsabilità sull’avvento del nazismo in Germania e sulla condizione di isolamento vissuto dai comunisti nei diversi Paesi europei. Senza il radicale cambio di rotta del 1935, al VII Congresso dell’Internazionale, difficilmente i comunisti avrebbero potuto assumere il ruolo poi svolto nella guerra al nazifascismo.

Oggi, in chi ci ha guidato nel “Horror tour” dell’irrilevanza politica, trovo carente proprio quella capacità di guardarsi dentro e comprendere una realtà circostante sempre più distante da noi, dalla quale siamo irrimediabilmente respinti. Esistono al di fuori di noi tanti soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica ma potenzialmente interessati a un progetto di classe. Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare al nostro interno un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione. Occorre andare oltre i nostri partiti, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza,un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato.

Non c’è, oggi, solo la crisi del capitalismo a livello internazionale, in Italia abbiamo oggi una decomposizione del sistema politico tale da aver travolto le mirabili previsioni della cosiddetta democrazia dell’alternanza, il bipolarismo, che nelle intenzioni dei suoi ingegneri e apologeti, tanto nel centro destra, quanto nel centro sinistra, avrebbe dovuto garantire un “salutare” ancoraggio politico del Paese al centro. Per due decenni hanno abbindolato gli italiani, dicendo che il superamento della “Prima Repubblica”, l’odiato sistema consociativo del proporzionale, avrebbe dato al Paese con la governabilità la stabilità economica, dunque la prosperità sociale. Oggi tutti questi discorsi appaiono sbiaditi e lontani ricordi. Però,a fronte di una mistificazione che si svela, ci troviamo in uno scenario politico nel quale sono sopravissute solo tre opzioni politiche PD, PDL, M5S. Nessuno di questi tre raggruppamenti pone al centro dell’agenda politica la questione che maggiormente segna questa fase di crisi economica, il lavoro.

La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’ esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro.  Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive, nel senso che a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale,la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile,capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Su questo dobbiamo iniziare a lavorare, con umiltà, senza velleità o ingenui volontarismi. Una cosa è certa, il quadro politico da cui veniamo è oramai superato, le nostre rispettive forze politiche, sia chiaro, non il comunismo in quanto tale, hanno fallito nella loro missione, hanno esaurito la loro funzione storica, bisogna andare oltre per riaggregare, a partire dai comunisti, una sinistra di classe più ampia capace di invertire la tendenza oramai inesorabile alla sconfitta.

Rispetto a tutto questo non sono possibili scorciatoie di alcun tipo, nemmeno quelle che ripropongono con 23 anni di ritardo i paradigmi di una “nuova Bolognina”. Possibile che, proprio nel pieno di una così catastrofica crisi organica del capitalismo, siano i comunisti a dover arrotolare le loro bandiere e non le forze liberali e socialdemocratiche, responsabili di questo disastro economico-sociale?

Quel che trovo veramente anacronistico e, se fossi credente, direi fuori dalla “grazia di dio”, è un dibattito a sinistra ancora ostaggio di conflitti e personalismi stratificatisi nel tempo, che hanno origine in divisioni di dieci, venti, trenta anni fa. Nel mentre è cambiato tutto attorno, eppure, noi siamo ancora appesi alle fratture di allora, al punto da affiliare nelle rispettive cordate giovani sovente inconsapevoli, che per ragioni anagrafiche non hanno potuto vivere certi avvenimenti. Il merito della discussione che avviamo oggi è di voler tracciare una linea di demarcazione per iniziare un confronto costruttivo, con l’ambizione di superare questo stato di cose, facendo a meno dei pregiudizi reciproci. Si può fare di più è meglio? Sicuramente, però credo che questa sia la strada giusta per partire, e la ritengo molto più appropriata della solita, autoreferenziale, dialettica dell’ombelico che contraddistingue le discussioni interne ai due partiti, per non parlare delle singole aree di appartenenza. Siamo tutti sotto un cumulo di macerie, o iniziamo a rimuoverle insieme o un giorno sapranno di noi (“il misterioso popolo dei comunisti”) solo dopo qualche scavo archeologico.

Usciamo dal ghetto!

Usciamo dal ghetto!

 

Chiarito il quadro del nostro fallimento, penso sia giunto il momento di pensare al dopo, agli elementi da cui ripartire per far uscire i comunisti dalla condizione di marginalità, anzi, invisibilità politica e sociale in cui si sono cacciati. Per prima cosa, penso si debbano fare i conti con gli errori fatti per evitare di ripeterli e imprimere una svolta rispetto al passato.

Nella loro storia i comunisti hanno saputo incidere sulla realtà, e uscire dal ghetto in cui le forze sociali conservatrici li avrebbero voluti relegare, quando hanno avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere i propri limiti, attraverso una severa, non rituale, autocritica. E’ stato così con il Congresso di Lione, che mise al bando settarismi e astrattismi ideologici con l’ambizione di costruire un partito in grado di analizzare la propria realtà nazionale e aderirvi plasticamente. E accaduto ancora nel fatidico biennio 1934-35, quando il movimento comunista ebbe il coraggio di sottoporre a severa critica la fallimentare tattica del periodo 1928-33, che recava con sé gravi responsabilità sull’avvento del nazismo in Germania e sulla condizione di isolamento vissuto dai comunisti nei diversi Paesi europei. Senza il radicale cambio di rotta del 1935, al VII Congresso dell’Internazionale, difficilmente i comunisti avrebbero potuto assumere il ruolo poi svolto nella guerra al nazifascismo.

Senza voler scomodare esempi storici ingombranti come questi, o altri che potremmo citare, tuttavia, ritengo oggi carente proprio quella capacità di guardarsi dentro e comprendere una realtà circostante sempre più distante da noi, dalla quale siamo irrimediabilmente respinti. Nonostante la nostra irrilevanza, conclamata, vedo ancora troppi compagni ripiegati su una valutazione meramente difensiva, più impegnata a fare le pulci alle organizzazioni collocate alla nostra destra che a realizzare un proprio bilancio. Smettiamola di parlare del PD, pensiamo a cosa vogliamo fare noi, anteporre la politica delle alleanze (PD sì, PD no) è un modo per mascherare la mancanza di una nostra soggettività politica. Per il PCI del dopoguerra la scelta di collaborare o rompere con le altre forze non era la premessa, ma una semplice eventualità tattica da prendere in considerazione a seconda delle situazioni e soprattutto dell’oggetto della collaborazione, o della rottura, in sé.

Chi trasforma questo rovello storico, in positivo o in negativo, ne rimane irrimediabilmente prigioniero. A mio avviso, esso non è la causa della nostra debolezza, bensì, l’effetto. Le cause del problema vanno ricercate altrove: la nostra subalternità culturale non solo verso l’attuale quadro politico, ma anche, e soprattutto, nei confronti di una più complessiva visione del mondo, di una Weltanschauung, che ci limitiamo a subire e ovviamente non siamo in grado di aggredire. Senza una nostra visione del mondo, che contempli un ordine diverso dall’attuale, la funzione dei comunisti perde di significato e senso storico, siamo destinati a essere fagocitati dai limiti storici delle politiche socialdemocratiche, anche se queste sono profondamente in crisi.

Per essere ancora più chiari, a mio avviso, il nostro problema non è l’essere stati l’ala sinistra di un progetto conservatore, la teoria del “socialfascismo” non mi ha mai suscitato alcuna simpatia. Il difetto semmai è all’origine: è mancata la parte rifondativa della nostra sfida. Abbiamo saputo riprodurre tutti i peggiori difetti dell’ultimo PCI, senza però averne il peso, non siamo stati capaci di costruire una nostra visione coerente e organica del mondo. Abbiamo lasciato il marxismo a illanguidire in soffitta per andare ecletticamente al traino delle ultime novità “radicali”(Revelli, Toni Negri, pensiero No-global, disobbedienza, nonviolenza, ecc. ecc) in un continuo pellegrinaggio ideologico fatto di svolte e controsvolte talmente volubili, e sovente contraddittorie, da averci lasciato, in ultima analisi, disarmati, proprio in una fase che doveva essere nostra: quella della crisi organica del capitalismo, segnata dal discredito e dalla disapprovazione popolare per le politiche liberiste.

Diciamolo serenamente, abbiamo fallito nella premessa del nostro progetto: non abbiamo rifondato né una teoria, né una prassi comunista. Ripartire, con onestà, significa fare i conti con questo problema, come affermava Marx, gli uomini prendono coscienza del proprio essere sociale, dunque fanno scelte di campo, sul terreno delle ideologie. Attualmente quale è la nostra?

Non caschiamo nella “falsa coscienza” della filosofia imperante, secondo cui le ideologie sono superate, è una menzogna, il liberalismo ha ancora oggi una sua ideologia, e le politiche che stiamo subendo in questi anni ne sono una tragica conferma, la stessa anti-ideologia dei movimenti antipartitici alla Grillo è, in realtà, un’ideologia in sé, costruita per negazione. Noi, non solo non abbiamo curato la costruzione di una nostra nuova visione del mondo all’altezza della sfida odierna, ci siamo sbarazzati di quella che avevamo ereditato.

Da qui bisogna ripartire, per questo ritengo necessario mettere al bando i comitati e le bizzarrie elettorali tanto in voga nell’ultimo decennio per avviare un lavoro di lungo periodo. L’ho già detto e scritto in passato, lo ribadisco, scusandomi per la riproposizione di un concetto già espresso: esistono al di fuori di noi tanti soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica ma potenzialmente interessati a un progetto di classe. Sono tanti gli italiani che non trovano seducente né la permanente vocazione al compromesso privo di riferimenti sociali del PD, né le allucinazioni carismatiche di una sinistra senza aggettivi, edificata per cooptazione attorno alle narrazioni immaginifiche del suo leader.

Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare al nostro interno, tanto meno nella prospettiva della “Rivoluzione civile”, un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione.

Occorre andare oltre i nostri partiti, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza, un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato.

Non si può continuare a militare per mero senso di colpa o per un malinteso “senso del dovere”, nell’accezione più cattolica dell’espressione. Non può più bastare la militanza per inerzia, lo sforzo individuale, spesso ingrato e faticosissimo di dirigenti e militanti del PRC e del PdCI, occorre raccogliere la sfida di una fase ricca di incognite e insieme potenzialità come questa e, da comunisti, saper rilanciare, abbandonando “boria di partito” e posizioni consolidate. Serve, con umiltà e apertura, un approccio disinteressato verso tutti quei compagni attualmente non attratti dalle nostre organizzazioni.