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Recensione al libro “Berlinguer Rivoluzionario” di G. Liguori. «La Nuova Sardegna», 17 giugno 2014.

 

Le idee di un comunista democratico.

«La Nuova Sardegna», 17 giugno 2014.

Recensione a Berlinguer rivoluzionario, di Guido Liguori (Carocci editore, Roma, 180 pgg. 13 euro)

Affrontare una figura monumentalizzata come Enrico Berlinguer, nel trentesimo anniversario della sua morte, è un lavoro assai rischioso. Sia per la qualità di alcuni lavori biografici del passato a lui dedicati (tra tutti quelli di Giuseppe Fiori, Chiara Valentini e Fracesco Barbagallo), sia per la peculiare congiuntura, dove le esigenze celebrative come le reazioni infastidite a esse producono senza posa atteggiamenti (speculari e complementari) agiografici o liquidatori. Entrambi questi approcci appiattiscono la figura di Berlinguer facendone semplicemente “un uomo buono” o un banale riformista. Entrambe queste visioni “passano in cavalleria” contraddizioni storiche e politiche che inevitabilmente non possono rendere lineare la biografia di un protagonista del nostro Novecento. Non è certo il caso dell’ultimo lavoro uscito su questo argomento, ciò anzitutto per le qualità intellettuali del suo autore. Guido Liguori è infatti uno dei più importanti studiosi al mondo di Antonio Gramsci, impegnato da anni in un lavoro scientifico e organizzativo (all’interno dell’International Gramsci Society) teso all’approfondimento e alla conoscenza dell’opera del pensatore sardo. Liguori è autore di numerose pubblicazioni, divenute punto di riferimento per gli studi gramsciani, ed è però anche studioso e autore di lavori sulla storia del PCI in generale, non solo su Berlinguer. Conoscere bene l’universo in cui si forma e opera l’ex segretario del PCI è un requisito essenziale che manca ad altre trattazioni, tutte concentrate sull’uomo e la sua bontà d’animo, tanto da decontestualizzare il suo retroterra ideologico e porre in secondo piano il significato politco della sua eredità teorica.

Senza trascurare gli aspetti umani della sua vicenda, Liguori costruisce una documentata biografia intellettuale attraverso la rilettura degli scritti politici di Berlinguer, attenendosi ai fatti con una narrazione sempre ben lontana da toni encomiastici. Oggi, in ossequio all’esigenze di beatificazione neutra, la sua figura è sovente rimasticata e rigurgitata in un formato santino, spendibile per ambienti interessati più alle anime belle che ai rivoluzionari. Così passano del tutto in secondo piano alcuni nodi politici, come la funzione del partito e la sua proiezione verso il cosidetto “fine ultimo” dell’agire comunista, che animarono invece scontri durissimi nel gruppo dirigente del PCI, procurando a Berlinguer una decisa opposizione interna nella Direzione del suo partito, ad esempio quella dell’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il rigore della ricostruzione storico-politica nel lavoro di Liguori è, al contrario, preziosa per farci comprendere “i pensieri lunghi” del politico sassarese, le sue “idee-forza”, per penetrare la sua costante “ricerca in corso” e dunque anche la dimensione non compiuta della sua elaborazione, in un contesto interno e internazionale marcato da gigantesche contraddizioni.

Prima questione, Guido Liguori ci presenta Berlinguer come un rivoluzionario, un comunista e democratico, chiarendo il rapporto organico e per nulla contraddittorio tra i due termini. Berlinguer ci rimanda a un’esperienza e a un tempo nel quale si guardava all’Italia come originale laboratorio politico, non solo per la presenza del più grande partito comunista dell’Occidente, in un Paese chiave per gli equilibri del Patto Atlantico, ma anche per il tentativo di rilancio sia dei suoi presupposti teorici, sia delle sue prospettive politiche in una fase di crisi del movimento a livello internazionale, soprattutto per le contraddizioni interne alla sua nazione guida. L’opera di Berlinguer, tesa a coniugare comunismo e democrazia, è spesso presentata come un unicum nella storia dell’organizzazione da lui guidata. In realtà essa affonda le sue radici nella peculiarità storica del PCI e in una lunga tradizione: senza abbandonare l’obiettivo del socialismo, quel partito (eccezion fatta per la breve fase della direzione bordighiana) pose sempre tra le sue coordinate il tema della lotta per le libertà democratiche. Pensiamo all’elaborazione gramsciana (dalle Tesi di Lione alle riflessioni carcerarie), alle categorie della democrazia progressiva di Togliatti e Curiel (nella Resistenza prima e nella stagione costituente poi), al ruolo giocato dal PCI contro i rigurgiti di sovversivismo reazionario delle classi dirigenti nazionali negli anni della strategia della tensione.

Seconda questione nodale, il libro prende le mosse dall’attualità del suo messaggio teorico e insieme dalla sua inattualità nella politica contemporanea italiana. L’autore, senza mai scadere nelle bagatelle della politica odierna e stando sempre sul versante di un’indagine storica, ci fornisce tra le righe alcune chiavi di lettura per trovare più di una risposta a un duplice quesito di fondo: “Perché oggi, al di là della retorica celebrativa, non vi sono più partiti di massa che possano dirsi eredi del suo lascito? Perché hanno vinto le idee e soprattutto il modus operandi dei suoi avversari di allora e dei loro seguaci odierni più o meno dichiarati?” A partire da questo nodo interpretativo, il libro di Liguori ci accompagna pagina per pagina alla scoperta del pensiero politico di un comunista democratico.

Gianni Fresu

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.