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Il terrorismo di sinistra in Italia, una storia tra “affinità e divergenze”

 

Il terrorismo di sinistra in Italia, una storia tra “affinità e divergenze”.

Di Gianni Fresu

 

L’eversione armata di matrice marxista, comparsa nel nostro paese negli anni Settanta, ha un retroterra politico e culturale che non può certo essere ritenuto totalmente estraneo alla tradizione della sinistra ed in particolare del suo più importante partito. Si è parlato spesso di “album di famiglia”, ciò che è certo è che la militarizzazione della sinistra rivoluzionaria si muove e sviluppa entro un canone piuttosto tradizionale. Questo nonostante una storia, quella dei comunisti, postasi in conflitto con la concezione stessa del terrorismo e malgrado il fatto che Lenin, nella sua elaborazione e battaglia politica, abbia a più riprese combattuto la tendenza a confondere lotta rivoluzionaria e terrorismo, mostrandone differenze e incompatibilità. Un dibattito assai concreto quello tra le forze rivoluzionarie russe a cavallo tra Ottocento e Novecento, proprio per le implicazioni politiche nel rapporto tra azione e rapporti sociali. Per Lenin la lotta di classe rivoluzionaria non aveva nulla da spartire con il modo di concepire il rapporto tra politica e violenza proprio del terrorismo, frutto di una concezione individualistica che si esprimeva nella mistica del “gesto”. Così, nei fatidici anni tra 1904-1905, Lenin era netto nel contrapporre lotta di classe e rivoluzione proletaria al metodo terroristico, da egli definito il «metodo specifico di lotta degli intellettuali» che non hanno alcuna fiducia nella vitalità e nella forza delle masse popolari e dunque pretendono di sostituirsi ad esse attraverso l’atto individualistico:

 

Quanto più pieno fu il successo dell’impresa terroristica, tanto più essa confermò l’esperienza fornitaci da tutta la storia del movimento rivoluzionario russo, un’esperienza che ci mette in guardia dai metodi di lotta quali il terrorismo. Il terrorismo è stato e rimane un metodo di lotta specifico degli intellettuali. E, comunque si valuti l’importanza del terrorismo, in quanto integrazione e sostituzione del movimento popolare, i fatti attestano in modo inconfutabile che gli attentati politici individuali non hanno da noi nulla in comune con gli atti di violenza della rivoluzione popolare. Ogni movimento di massa è possibile nella società capitalistica solo come movimento operaio classista. (…) Non fa meraviglia se tanto spesso, da noi, si trova tra i rappresentanti radicali (o radicaleggianti) dell’opposizione borghese gente che simpatizza per il terrorismo. Né fa meraviglia che tra gli intellettuali rivoluzionari siano particolarmente attratti dal terrorismo proprio quelli che non credono nella vitalità e nella forza del proletariato e della sua lotta di classe2.

Sull’internità o estraneità del fenomeno terroristico alla storia comunista e alla tradizione del PCI, si sviluppò tra il 1977 e il ’78 un vivacissimo dibattito a sinistra, ospitato in un confronto serrato tra le pagine de «il manifesto». In uno di questi articoli, emblematicamente intitolato I figli dei bolscevichi? Rossana Rossanda contestava la tesi emergente, specie tra le fila di Lotta Continua, secondo cui in realtà il terrorismo sarebbe stato «l’ultimo figlio del PCI perché da bravo figlio lo imita e, da bravo figlio, tanto più lo imita quanto più il padre lo delude».

 

Quel che oggi è in atto in Italia e di cui si discute non è la violenza, ma il terrorismo, e sono due cose diverse. I partiti comunisti furono sempre violenti, fino alle ultime edizioni, quasi mai terroristi. Fra tutte le pratiche di lotta, usarono il terrorismo raramente, con circospezione e grandissimo controllo. Per due buone ragioni: la prima è che il terrorismo privilegia l’individuo (e quindi gli riconosce un potere e un ruolo e il gesto), mentre la tradizione comunista privilegia il collettivo e l’azione come tessera d’un mosaico complesso e subordinato al partito e alla sua strategia, il cui asse fondamentale è sempre altrove; in secondo luogo perché concepisce la violenza come momento terminale e transitorio d’una azione politica, le restituisce insomma un senso brutalmente ma puramente strumentale. Non si troverà, nell’agiografia comunista, nessun «eroe» ritagliato sullo schema della violenza come valore; e quanto al terrorista che ha operato contro il partito, la sua sorte è di scomparire, non solo come gesto, dalla storia3.

 

Nel terrorismo, scriveva ancora la Rossanda, al centro non sta né il partito né il popolo ma il gruppo con la sua capacità tecnico-militare, il terrorismo italiano insomma non puntava a costruire un soggetto politico ma a bloccare l’avversario. Dunque Lenin non c’entrava niente, e limitarsi ad «annegare» il terrorismo nell’idea della violenza, anziché considerarlo come specifica tecnica e idea della politica, avrebbe significato dare una lettura superficiale del fenomeno e soprattutto non comprendere le differenze profonde tra le manifestazioni dello scontro di classe in Italia dal dopoguerra in poi.

Ritornare su questa elaborazione è importante anche se poi bisogna tener conto che la lotta armata nel suo comparire in Italia si considera tutto tranne esperienza terroristica. Questo, se vogliamo, è un primo elemento di contraddizione che merita di essere approfondito.

Il riferimento costante alla Resistenza armata contro il nazifascismo, l’idea della continuità di una la lotta di liberazione nazionale ancora da completare, la convinzione di un tradimento di quella esperienza nel suo epilogo unitario e democratico, sono alcuni dei temi più ricorrenti nel formarsi del clima culturale e delle prime esperienze organizzate di lotta armata nella sinistra italiana.

Del resto non è certo un mistero che tra le pieghe del movimento partigiano comunista vi fossero consistenti aree desiderose di proseguire lo scontro armato per la creazione di una repubblica socialista. Così come non lo è il mantenimento di una struttura armata pronta a riprendere lo scontro o comunque a servirsi delle armi anche a scopo difensivo. Un esempio di questo tipo viene dalla famosa Volante rossa, nata dalla sezione del Partito comunista di un quartiere operaio di Milano, la sezione “Martiti oscuri” a Lambrate, non un gruppo clandestino autonomo ed esterno al PCI. In proposito, così ricordava Primo Moroni:

 

Sotto il nome della sede c’era scritto in grande Volante rossa. Questi compagni, provenienti da una brigata partigiana, sfilavano nei cortei del Partito comunista come servizio d’ordine – nel 1947-48 – con il giubbotto che portavano in montagna e la pistola personale. Sfilavano in pieno centro a Milano sotto gli occhi di tutti. Ne ho conosciuto alcuni, mentre ero un giovane operaio alla OM nel 1950, mentre una parte dei loro dirigenti era già scappata in Cecoslovacchia. Fra questi Alvaro che era il loro comandante (…). La Volante rossa ha effettuato nella zona di Milano e del Nord più di 150 omicidi politici. C’è stata poi un’altra formazione che operava a Reggio Emilia, che ha forse operato un numero ancora maggiore di esecuzioni. C’è persino una leggenda che circola nella Bassa emiliana, secondo cui un pullman di fascisti partito da qualche paese in provincia di Reggio Emilia per andare ad onorare la tomba di Mussolini, a Predappio, non sarebbe mai giunta a destinazione (…) In realtà 35 fascisti scomparvero davvero, e di ciascuno si ha nome e cognome: questa non è leggenda4.

 

Al tema della “Resistenza tradita” – articolatasi poi nell’idea brigatista secondo cui, con la fine della guerra, al dominio nazifascista si sarebbe sostituito quello dello «Stato Imperialista delle Multinazionali» – si aggiunge quello dell’esigenza, da parte di questi gruppi, di fronteggiare il clima venutosi a creare con il “tintinnar di sciabole” e l’avvio di un piano di strategia della tensione che coinvolge apparati di sicurezza dello Stato italiano e di quello americano, congiuntamente all’eversione neofascista.

Il salto di qualità si ebbe con il comparire, nelle sue forme più eclatanti, delle trame golpiste, che indussero, specie dopo la strage di Piazza Fontana, la “sinistra rivoluzionaria” allo scontro militare. I primi organismi clandestini armati, come i GAP (Gruppi di azione partigiana) guidati da Giangiacomo Feltrinelli e altri, posero nei loro documenti la necessità della resistenza armata, in rapporto ai sempre più probabili esiti golpisti della politica italiana. In questo contesto vennero costituiti i primi nuclei semiclandestini delle BR e tutte le organizzazioni politiche extraparlamentari si dotarono di servizi d’ordine e di strutture semiclandestine armate, nell’eventualità di doversi difendere da un attacco armato dello Stato. Non casualmente uno dei primi documenti delle BR venne intitolato Nuova Resistenza. Dietro questa argomentazione, ricorrente nelle analisi del fenomeno da parte degli ambienti più prossimi a quell’esperienza, sono presenti però sia elementi oggettivi di quella fase, sia tesi giustificazioniste che interpretano a posteriori la nascita della lotta armata in chiave esclusivamente difensiva. Insomma una tesi “autoassolutoria” che, per quanto plausibile, non può essere considerata soddisfacente sul piano dell’indagine storica. Un’analisi più dettagliata dovrebbe necessariamente sorreggersi su tutta la documentazione esistente del periodo che va dal 1967 al 1973, per separare quanto c’è in essa di originario e quanto di rielaborato, ma soprattutto per mettere a fuoco il posto che veniva attribuito alla violenza politica nelle concettualizzazioni del tempo e individuarne, fino in fondo, la matrice offensiva o difensiva.

In proposito estremamente utili si rivelano le riflessioni contenute nell’intervista5 a una figura emblematica come Giambattista Lazagna, partigiano decorato con la medaglia d’argento e poi dirigente e amministratore del PCI. Arrestato una prima volta nel 1972, nel corso delle indagini per la morte di Giangiacomo Feltrinelli, è più volte chiamato in causa e quindi arrestato, senza alcuna prova concreta, come presunto fiancheggiatore o addirittura come eminenza grigia delle BR.

In questa intervista Lazagna – impegnato negli anni Sessanta in battaglie sociali, nel sostegno ai movimenti rivoluzionari in Asia e America Latina, e soprattutto nel riaffermare un’idea militante di antifascismo, che sfuggisse dalle retoriche celebrative patriottiche – parlava della sua personale esperienza e del rapporto di amicizia fraterna con Feltrinelli. Nella narrazione Lazagna spiegava due aspetti particolarmente interessanti: anzitutto il forte condizionamento dei rischi di un imminente colpo di Stato sulle riflessioni di Feltrinelli, e il fatto che l’“editore rivoluzionario” fosse tutto tranne che un dissidente antagonista rispetto alla tradizione del PCI e alla sua impostazione filosovietica. Ovverosia, Feltrinelli non era certo un corpo estraneo rispetto al PCI.

Partendo dal primo punto, Lazagna ricordava quanto per Feltrinelli fosse inevitabile il colpo di Stato e come ritenesse che non ci fosse molto da fare rispetto a un colpo militare analogo a quello verificatosi in Grecia. Il problema per Feltrinelli era semmai di organizzare la resistenza dopo, attraverso la costituzione di piccole bande partigiane che attraverso la guerriglia facessero riemergere la lotta popolare. Feltrinelli era molto conosciuto in America Latina come a Cuba, e a sua volta era un profondo conoscitore di quelle esperienze di guerriglia, dunque la sua idea era di riproporre il modello guevarista in caso di colpo di Stato, ma per predisporsi a quella ipotesi oramai inevitabile bisognava prepararsi alla resistenza armata prima, e non dopo, il golpe. Secondo Lazagna invece il colpo di Stato andava contrastato anticipatamente, attraverso scioperi, manifestazioni e occupazioni, cercando il coinvolgimento popolare di massa, perché nella guerra partigiana solo i grandi scioperi avevano reso possibile l’avvio della resistenza con l’appoggio delle popolazioni. Le bombe di piazza Fontana non fecero che accrescere questa intima convinzione di Feltrinelli come di numerosi altri militanti, spingendo una intera generazione alla decisione di prendere l’iniziativa.

Rispetto al secondo punto, Lazagna sottolineava i legami di Feltrinelli alla sinistra tradizionale, primo tra tutti Pietro Secchia, con i suoi miti e valori: la Resistenza e l’Unione Sovietica.

 

Quante volte l’ho sentito ribattere a chi criticava l’Unione Sovietica che l’URSS aveva un ruolo insostituibile di contenimento dell’imperialismo americano! L’URSS, diceva, ha questa funzione essenziale; “tutto il resto tocca a noi”. (…) Feltrinelli non era antisovietico, come invece di solito veniva dipinto. La rivoluzione culturale non lo aveva commosso e proprio quando la Cina godeva di grande popolarità nella sinistra, non gli ho mai sentito fare aperture significative verso il maoismo. E non è un caso, mi pare, che l’uomo politico che gli era più vicino fosse Pietro Secchia, ossia quello che veniva indicato come l’ultimo grande rappresentante del vetero-comunismo6

 

Sulla necessità di una risposta armata ad un eventuale colpo di Stato, così come sull’esigenza dell’autodifesa dai gruppi neofascisti, c’era una quasi totalità di consensi dalla sinistra rivoluzionaria agli stessi militanti del PCI. Tuttavia la continua escalation degli avvenimenti si scontrava con la sempre più diffusa consapevolezza, confermata dallo stesso Secchia, che il PCI avesse da tempo smesso sul terreno della vigilanza quelle strutture che dalla lotta partigiana si erano conservate per il primo decennio del dopoguerra. L’angoscia provocata da questa consapevolezza, e la necessità di rispondere colpo su colpo alle provocazioni neofasciste, portarono al formarsi di servizi d’ordine sempre più militarizzati, che trovarono nella vecchia Volante rossa una fonte di ispirazione fondamentale, oltre al comparire di diverse esperienze organizzative di “Soccorso rosso” tra i vari gruppi.

Certo, oltre al mito della Resistenza tradita e all’esigenza di autodifesa da neofascisti e apparati dello Stato, c’è un vero è proprio clima politico culturale che dalla contestazione degli anni Sessanta si specializza incanalandosi sempre più in un preciso processo di definizione ideologica e di selezione militante, portando i gruppi più politicamente definiti a separarsi dalle correnti controculturali e avviare un proprio percorso di strutturazione nelle reti della sinistra rivoluzionaria. Se gli anni Sessanta erano stati contraddistinti da un fermento culturale che investì la società nel suo complesso, con un’esigenza di rinnovamento e democratizzazione a 360°, dopo il biennio 68-69 si ebbe un separarsi dei gruppi più politicizzati e una sempre più decisa radicalizzazione ideologica.

Secondo Ermanno Gallo le radici del movimento di ispirazione rivoluzionaria in Italia, tra i Sessanta e i Settanta, andavano ricercate in due elementi: una prima radice storica e ideologica peculiare del nostro paese, l’antifascismo; una seconda radice legata alla «composizione di classe e al tipo di produzione esistente in Italia basata sulla centralità produttiva della grande fabbrica».

Rispetto al primo elemento pure Gallo ripropone la tesi già delineata, quanto al secondo elemento, esso si ricollega alla tradizione della centralità operaia, che in Italia aveva una lunga e articolata tradizione risalente all’esperienza ordinovista nel Biennio rosso. Così per Gallo le BR nascevano su un terreno classico per la storia comunista italiana, ruotando attorno a due perni (antifascismo militante e centralità operaia) di certo non nuovi nelle pratiche e nel lessico del movimento operaio italiano.

La differenza rispetto al biennio ‘68-69 si ha nelle forme perseguite più che nei riferimenti ideali. Con l’inizio dei Settanta, per un gruppo come le BR la scelta dell’invisibilità al potere, della clandestinità divenne strategica. Su questo si ebbe il superamento delle modalità organizzative tradizionali della sinistra.

 

Questo elemento è nuovo e importante perché ripropone aspetti presenti nella resistenza ma in una forma inedita rispetto alla metropoli. È il movimento armato che agisce all’interno dei punti nevralgici della produzione e della città, configurando per la prima volta la “guerriglia metropolitana” 7.

 

Detto di questo mutamento però, anche le prime BR si mossero, almeno fino al 1973, su un terreno per molti versi tradizionale. Esse portarono il nucleo armato all’interno delle strutture produttive, tuttavia, l’«inchiesta operaia» restava il vero strumento ideologico con cui si cercava un radicamento e la riaffermazione della centralità operaia. Sul versante militare vero e proprio, i primi gruppi armati ancora interpretavano la funzione della violenza formale sul piano del «significato simbolico», come «azioni esemplari» che nelle forme e nel linguaggio si ricollegavano nuovamente all’immaginario dell’antifascismo militante e della lotta partigiana. «Le azioni violente di questo periodo, da parte delle formazioni lottarmatiste sono simboliche, emblematiche, a contenuto sociale forte, ma mai cruente». Il vero spartiacque che portò i gruppi dell’eversione armata, le BR in particolar modo, ad abbandonare le azioni violente dimostrative, ad alto valore mediatico-simbolico, per adottare lo scontro militare vero e proprio, il «muro contro muro», si ebbe nel biennio 1974-75 trovando la sua base essenziale nelle profonde trasformazioni che investirono il ciclo produttivo, e dunque anche la cosiddetta «composizione di classe», nel 1973.

In quell’anno prendeva il via la più grande ristrutturazione produttiva dal dopoguerra che puntava a sostituire i vecchi metodi tayloristi e a realizzare una frammentazione della produzione attraverso il decentramento produttivo (o delocalizzazione) e la creazione di tante piccole unità produttive. È la premessa fondamentale del lavoro in conto terzi che ha poi segnato i decenni successivi. Tutto questo aveva delle conseguenze immediate sulla soggettività politica della classe operaia e la sua capacità di incidere sui reali processi sociali e politici. Con la produzione fordista, lungi dal diventare il «gorilla ammaestrato» (Gramsci lo aveva ampiamente previsto nelle note sull’Americanismo), l’operaio raggiunse i livelli più alti di coscienza, capacità organizzativa, compattezza politica. Con la grande fabbrica la classe operaia strappò i suoi più importanti risultati in termini di condizioni di vita e lavoro, e divenne, attraverso il conflitto, un soggetto realmente determinante per gli equilibri del paese. Nella lettura della sinistra rivoluzionaria, la ristrutturazione produttiva più che obiettivi di razionalizzazione, efficienza ed efficacia produttiva, avrebbe perseguito obiettivi politici: frammentare la classe operaia per fiaccarla e indebolirla. Separare i diversi passaggi della produzione per dividere anche materialmente gli operai, introdurre stratificazioni molteplici tra figure e tipologie lavorative, ridurre il livello di sindacalizzazione e politicizzazione delle masse operaie. In sostanza l’obiettivo sarebbe stato espungere il conflitto sociale e realizzare un nuovo equilibrio – a proprio vantaggio – tra economia e politica nel paese. Il periodo storico 1973-78 rappresenta appieno quella che negli ambienti della sinistra rivoluzionaria era definita “l’offensiva padronale”. Tutto questo portò i gruppi semiclandestini della sinistra rivoluzionaria a cercare una risposta militare a questa offensiva.

 

Un’organizzazione come Prima linea decide che, per mantenere l’autonomia, la democrazia e il potere operaio già raggiunti in fabbrica, è necessario alzare il livello dello scontro e organizzarsi anche militarmente per reggere l’attacco padronale. Contemporaneamente nel tessuto sociale nasce e prende forza l’Autonomia operaia, organizzata o diffusa, che pur praticando la violenza non è strutturata in organizzazioni clandestine e insegue il capitale sul territorio, là dove si scompone in nuove forme di potere.

Da quel momento le risposte assumono diverse forme. Quella di Pl e altri organismi come la “Walter Alasia”, sostengono, per esempio, che bisogna essere presenti all’interno della fabbrica e avere contemporaneamente strutture semiclandestine. Altri movimenti di massa come l’Autonomia operaia danno risposte diverse sul territorio continuando a legare tra loro soggetti difformi anche al di fuori della fabbrica, nei luoghi più dispersi della metropoli8.

 

Se per un verso dunque si può dire che l’orizzonte ideologico della lotta armata di sinistra non è estraneo ai valori tradizionali e alla storia stessa della sinistra italiana, per un altro invece si deve tener conto della crisi di egemonia vissuta dal Partito comunista nel corso del dopoguerra. Non a caso la radicalizzazione del decennio ‘68-78 è stata efficacemente definita come la manifestazione di un conflitto nel quale i figli non riconoscevano più e ripudiavano i propri padri, nel quale la divaricazione delle strade porta ad una incomunicabilità radicale priva di mediazioni. Trattando di questa crisi di egemonia si individuano solitamente nel 1956 e nel biennio ‘68-69 i punti nodali, probabilmente però bisognerebbe allargare ancora la visuale storica e comprendere le resistenze con le quali venne accettata da una parte consistente del movimento comunista il mutamento di prospettiva della «Svolta di Salerno». Con essa il PCI intraprendeva la strada dell’unità di tutte le forze antifasciste, comprese quelle stesse forze che avevano reso possibile e agevolato l’ascesa del fascismo (monarchia, esercito, liberali), rinviando la questione istituzionale su forma di Stato e forma di governo a liberazione avvenuta.

Questa svolta, decisiva nel processo di liberazione dal nazifascismo, impegnava i comunisti nella ricostruzione del quadro democratico senza alcuna ambiguità tattica o «doppiezza», si trattava di una scelta strategica destinata a mutare il ruolo del Partito comunista italiano nella storia del paese. Come è noto però per una lunga fase la scelta democratica del PCI venne interpretata come un «abile espediente tattico», dietro la quale si sarebbe articolata la necessità di accumulare forze in vista del momento decisivo dello sbocco rivoluzionario. A tal fine intere divisioni partigiane rimasero armate, e la stessa struttura di sicurezza di cui il PCI era dotato, per molti, versi aveva contribuito a sviluppare l’equivoco della «doppiezza comunista». In tal senso gli accadimenti successivi all’attentato a Togliatti nel 1948 furono un primo svelarsi di quell’equivoco. L’immediato sciopero generale, le agitazioni insurrezionali spontanee, lo scontro con le forze dell’ordine, intere città che finirono immediatamente sotto il controllo delle divisioni partigiane armate. Insomma “l’ora X”, il fatidico momento della rivoluzione oramai giunto. L’intervento del PCI per far rientrare le agitazioni in un alveo democratico, la decisione di smobilitare la resistenza in armi per intraprendere la strada del confronto democratico – il tutto dopo le fatidiche elezioni dell’aprile che, per ragioni interne ed internazionali, avevano dimostrato l’impossibilità di una via elettorale al socialismo – costituirono un brusco ritorno alla realtà sbarrando il passo alle speranze residue di una prosecuzione della lotta di liberazione nazionale verso il fine ultimo, in fasce non marginali di intellettuali, militanti e di parte degli stessi gruppi dirigenti comunisti.

Un altro segnale venne in tal senso con i fatti del giugno luglio 1960, dove però per la prima volta la contestazione esplose spontaneamente senza che il PCI potesse intervenire efficacemente nell’esercizio della sua direzione. Un episodio nel quale l’opposizione sociale superò a sinistra il partito, premessa fondamentale senza la quale difficilmente potrebbero essere comprese le peculiarità del ‘68 italiano.

Prima di questo episodio però i due momenti essenziali che segnarono la crisi di egemonia del PCI a fronte di un processo di radicalizzazione dei movimenti giovanili, si ebbero con il XX Congresso del PCUS nel febbraio del 1956 e l’VIII del PCI nel dicembre successivo, nei quali venne avviata la fase della destalinizzazione affermatasi non senza resistenze tra i comunisti. Con la Conferenza sui problemi internazionali dei partiti comunisti del 1960 si determinò la rottura del fronte socialista con la divisione tra URSS e Cina. In questa spaccatura i gruppi stalinisti del PCI, delusi dalla svolta di Kruscev, trovarono un punto di riferimento internazionale dando vita ad una gemmazione propria, destinata a segnare profondamente il dibattito a sinistra negli anni successivi, pur senza diventare mai grande fenomeno di massa capace di impensierire la forza del PCI. Nel 1962 il gruppo di Padova guidato da Ugo Duse ed Enzo Calò fece uscire il primo giornale di ispirazione marxista-leninista in contestazione aperta verso il PCI. Esso si riallacciava anche nella testata alla polemica russo-cinese chiamandosi «Viva il leninismo», così come la celebre pubblicazione dei cinesi nella quale veniva denunciato il revisionismo dell’URSS.

La frattura formale si ebbe nel X Congresso del PCI, tenutosi nella fine del 1962, al quale partecipò una delegazione del partito cinese. In quel Congresso Togliatti attaccò duramente la politica del partito di Mao, che a sua volta replicò aspramente contro il segretario del partito italiano. Ne nacque, ai primi del 1963, un celebre opuscolo delle Edizioni estere di Pechino intitolato Ancora sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi, ampiamente diffuso tra i militanti italiani. Per la prima volta esponenti di primo piano del socialismo internazionale contestavano Togliatti presso i suoi stessi militanti, per la prima volta l’autorità del PCI veniva così profondamente messa in discussione di fronte ai comunisti italiani. In tutto questo dibattito si è formata la base ideologica dei cosiddetti gruppi m-l, i quali hanno trovato un primo momento di centralizzazione con la nascita del gruppo Edizioni Oriente nell’estate 1963.

Questa prima vicenda, a cui va affiancata la nascita di Quaderni rossi, segnò un colpo fortissimo alla capacità egemonica del PCI e alla sua aspirazione a rappresentare in via esclusiva il mondo comunista in Italia. Con queste vicende si formarono, per la prima volta, gruppi e partiti a sinistra del PCI che ne contestavano il “revisionismo, l’imborghesimento, la socialdemocratizzazione”. Senza l’approfondimento di queste vicende anche le peculiarità italiane del biennio ‘68-69 e i rapporti durissimi tra PCI e gruppi della sinistra rivoluzionaria negli anni Settanta sarebbero difficilmente comprensibili.

Il 1968, preceduto da un decennio intenso, carico di significati politici, oltre al movimento dei lavoratori, è stato segnato dalla crescente radicalizzazione dei ceti medi. Il movimento studentesco ha trovato quali suoi punti di riferimento la rivoluzione cubana, la resistenza vietnamita, la rivoluzione culturale. Come è stato abbondantemente scritto, si è trattato di un’esplosione sviluppatasi al di fuori delle previsioni dei partiti tradizionali e dello stesso PCI. Le difficoltà di rapporti tra movimento e PCI, accentuatesi ulteriormente con le svolte di Berlinguer nella metà degli anni Settanta, sono il segno più evidente di quella crisi di egemonia. Da un lato il PCI bollava con sempre più facilità il radicalismo del movimento con aggettivi come diciannovismo, sovversivismo piccolo-borghese, sinistrismo, dall’altra il movimento vedeva sempre più nel partito una controparte più che il suo alleato naturale. In questa distanza si è creato un cortocircuito come quello che ha investito la sinistra in Italia negli anni Settanta, con gli esiti drammatici che tutti conosciamo. Tra gli approfondimenti che bisognerebbe approntare un posto di rilievo spetta all’analisi delle teorizzazioni, dei documenti e delle prese di posizione (ufficiali e non) del PCI sul movimento prima e sulla lotta armata poi. Uno studio che metta in luce alcune contraddizioni particolari, che hanno reso possibile il comparire del terrorismo all’interno di un quadro politico che, come abbiamo visto, non era al di fuori della tradizione comunista o che, sicuramente, non era riconducibile alle aree controculturali di contestazione movimentista. I primi nuclei delle BR si formarono infatti tra operai ed ex militanti del PCI, tipico il caso di Franceschini, o comunque si coagularono tra quadri ben poco coinvolti dal clima di contestazione se vogliamo libertaria del ’68.

Chiaramente, per comprendere tutto questo e affrontare le contraddizioni, non ci si può limitare all’analisi endogena della storia della sinistra, ma è necessario allargare il campo alla storia d’Italia del secondo dopoguerra affrontando il tema del rapporto tra violenza e politica in riferimento alle classi dirigenti italiane e al fronte che, proprio sul terreno più propriamente militare, si è opposto alla crescita della sinistra, e segnatamente del movimento comunista, nel nostro paese. Ovverosia, è necessario indagare sui rapporti tra istituzioni, forze economiche, aree politico-culturali conservatrici e gruppi neofascisti, perché se è vero che da un certo momento in poi a sinistra esplode il problema del rapporto tra violenza e politica, lo è ancora di più il fatto che, sull’altra barricata, l’opera di contrasto per il mantenimento dello Status quo economico sociale in Italia si sia avvantaggiata dell’utilizzo sistematico della violenza, sia mirata, sia indiscriminata, oltre che di tutti gli apparati egemonici connessi all’esercizio del potere.

 

 

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1 Il presente saggio costituisce un primo ragionamento nell’ambito di un’indagine più ampia a carattere storico, dal titolo Violenza, politica e potere in Italia nel secondo dopoguerra, di cui mi sto attualmente occupando in vista di una prossima pubblicazione.

2 Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1976, Vol. VIII, pp. 12, 13.

3 R. Rossanda, I figli dei bolscevichi?, «il manifesto», 25 gennaio 1978.

4 Le parole e la lotta armata. Storia vissuta e sinistra militante in Italia, Germania e Svizzera, a cura di P. Moroni, Shake edizioni, Milano, 1999, pag. 26.

5 Antifascismo e partito armato. Crisi di egemonia ed origini del terrorismo. A cura di A. Natoli, Ghiron, Genova, 1979.

6 Intervista a G. B. Lazagna, Ivi, pag. 23.

7 E. Gallo, in Le parole e la lotta armata, op. cit. pag. 59

8 Ivi, pag. 54.

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.